In Sri Lanka al seguito del «Movimento e azione dei gesuiti insieme per lo sviluppo»/2

Tra i senza diritti
delle piantagioni di tè

 Tra i senza diritti delle piantagioni di tè  QUO-048
27 febbraio 2024

Sorseggiare un tè e fare memoria di ciò che c’è dietro la sua produzione, per lo più storie di antica e moderna schiavitù per intere famiglie: è quanto ci si porta dietro dal proseguimento del viaggio in Sri Lanka al seguito della fondazione Magis (Movimento e azione dei gesuiti insieme per lo sviluppo) che stavolta da Colombo si addentra nel centro dell’isola.

Verso il cuore verde dell’isola


Il percorso dalla capitale ad Hatton, cuore della raccolta dell’oro verde di Ceylon, è lungo e faticoso. La condizione delle strade interne è abbastanza buona sebbene siano alquanto strette. I limiti di velocità sono bassi: li impongono per lo più i numerosi animali che vagano indifferenti invadendo le vie di comunicazione; dalle mucche ai tantissimi cani randagi assetati per il caldo estremo e pieni di pulci, dalle galline agli asini, dalle guizzanti scimmiette ai pavoni. È un brulicare di tuktuk, i tradizionali mezzi a tre ruote, noleggiati in gran parte anche dai turisti, che colorano il traffico congestionato dei centri più grandi. Ai bordi delle vie, venditori di spezie, pesce, frutta tropicale: mango e cocomeri prelibati, papaya e ananas, semi di ogni genere. Questi vengono messi a essiccare senza alcuna protezione direttamente sul manto stradale rovente: veri e propri decori, depositati a terra come fossero petali di fiori, come fosse sempre festa, quasi a richiamare gli squillanti toni dei tessuti indossati, dal giallo oro al ruggine, dal turchese al verde, con tutte le gradazioni del rosso.

Chi cerca di affrancarsi


La sosta dal padre gesuita Gabriel Alfred, in altitudine, offre un’ottima colazione in una canonica essenziale e misera. «Di notte — confessa — si sente molto il freddo; qui riscaldamento non ce n’è, abbiamo pochi mezzi. E l’escursione termica si fa sentire». Vive da solo, accanto alla chiesa. Qui il territorio parrocchiale è frequentato da una cinquantina di famiglie. Spiega che sono persone che non hanno tuttora terre di proprietà: un paio di secoli fa furono deportate dai colonizzatori inglesi dal sud dell’India a coltivare le campagne di Ceylon dove i cespugli di camellia sinensis (la pianta del tè) hanno attecchito ottimamente. «Molti giovani stanno lasciando queste zone a causa delle condizioni di lavoro non favorevoli. Si trasferiscono in genere nelle città dove vengono impiegati nei ristoranti, se va bene. Di frequente, soprattutto di recente, sono le madri a emigrare verso i paesi del Golfo, abbandonando i propri nuclei. Così — spiega padre Gabriel — si producono delle ferite, delle vere e proprie spaccature familiari che non sempre si rimarginano». Con la guerra in Medio Oriente, osserva, si sta creando un esodo forzato di ritorno con ulteriori problematiche difficili da riassorbire.

Raccogliere tè: senza diritti, casa, riposo


L’itinerario riprende con una sosta a Badulla, in una delle diocesi più povere del paese. Poi ci si dirige verso le alture centrali dell’isola, dove la pioggia e il clima umido e fresco favoriscono la coltivazione di tè di altissima qualità. Lo Sri Lanka è al quarto posto nel mondo per produzione, dopo Cina, India e Kenya. Il paesaggio è incantevole con colline interamente terrazzate di filari e piantagioni. Si intravedono le donne raccoglitrici delle foglie pregiate, con lo zaino di vimini sulle spalle, per la maggior parte di etnia tamil, sottoposte a turni di lavoro lunghissimi con un guadagno che equivale a meno di tre dollari ogni giorno lavorativo. In molti casi sono costrette a chiedere dei prestiti entrando anche nella trappola degli usurai. Sono persone ancora prive di diritti fondamentali per cui l’organizzazione Voice of Plantation People continua a far sentire la propria voce presso il governo affinché ponga fine a questo vero e proprio sfruttamento.

Tra i “fuori casta” sperando in un riscatto sociale


L’80 per cento della gente impiegata nelle piantagioni è costituito da dalit, i “fuori casta”, quelli che originariamente erano definiti gli “intoccabili”. Si vergognano di parlarne, dicono gli operatori del Loyola Center, che ad Hatton dal 1993 opera con due programmi a favore di queste persone: uno educativo per i bambini al di sotto dei 5 anni (Loyola Campus), l’altro come sostegno sociale per l’avviamento al lavoro (Centre for Social Concern). Il direttore di entrambi i progetti sostenuti dal Magis è il gesuita padre Alexis Prem Kumar, dalle energie e dall’ironia strabilianti, e con una storia personale che ha dell’incredibile: indiano, aveva lavorato per il Servizio dei gesuiti per i rifugiati tra i profughi srilankesi che vivevano nel Tamil Nadu. Trasferitosi al Jesuit Refugee Service in Afghanistan, è stato rapito dai talebani nel 2014. Dopo otto mesi vissuti tra la vita e la morte, è stato liberato e attualmente in Sri Lanka è in prima linea per far conoscere le condizioni in cui vivono gli operai del tè e per tentare di riscattarli garantendo loro, grazie appunto al Magis, percorsi di istruzione. «Senza istruzione non c’è sviluppo, ci sarà sempre povertà», racconta.

Le scuole dell’infanzia del Loyola Center


Ad aiutare nello staff c’è anche suor Patricia Lemus, comboniana del Guatemala, da quattro anni e mezzo in Sri Lanka, coinvolta nel favorire soprattutto la conoscenza dell’inglese per giovani altrimenti tagliati fuori dall’ingresso all’università (solo un quarto riesce a proseguire negli studi). «Qui — dice — sto imparando a non gestire programmi calati dall’alto ma a capire nel profondo le esigenze del tempo presente, adeguando la risposta all’oggi. E poi c’è tanta creatività. Ero arrivata dopo anni di missione in Kenya con l’intento di fare, di lavorare. Sto imparando a “stare con” più che a fare. Qui c’è una spiritualità vissuta in maniera molto interiore; ero abituata a essere più, diciamo, espansiva. Va bene così». Un sorriso come perle, occhi brillanti: sono quelli di Yogitha Madona, madre di famiglia; ogni giorno impiega quasi quattro ore in autobus per andare e tornare dal centro, dove è la coordinatrice delle attività. Nelle cinque scuole per l’infanzia che monitora si forniscono anche programmi nutrizionali per i genitori nonché un sostegno psicologico per le giovani madri. «Qui sono molto poveri e io sono molto orgogliosa del nostro lavoro», racconta: «Per questi bambini indossare una divisa in classe è un segno di dignità, sentono di poter essere come gli altri bambini che vedono per le strade. Ci sono evidenti frutti del nostro impegno: all’inizio i piccoli non riuscivano a parlare con noi, non riuscivano proprio ad aprire bocca, ora sono molto amichevoli, a loro agio. È assai cambiato il loro atteggiamento. Crescono bene. E i genitori ora sanno che bisogna sfruttare al massimo l’apprendimento in quella fascia d’età».

La vulnerabilità dei villaggi remoti


L’accoglienza in due delle scuole visitate è fatta con tutti i riti propri della cultura locale: ghirlande di fiori, accensione delle candele, il bindi (“goccia rossa”) sulla fronte; segni di appartenenza a una comunità che vuole aprirsi all’estraneo, che condivide. Le maestre infondono serenità, creano un clima di festa ed estrema riverenza per gli ospiti. Raccontano la propria esperienza a contatto con famiglie indigenti, che abitano in ricoveri ricavati dentro capannoni di lamiera, senz’acqua; solo ciò che fuoriesce da una pompa comune in mezzo alle galline può servire come minimo approvvigionamento. Eppure lo Sri Lanka è l’isola delle risaie, di una natura rigogliosa che offre bacini d’acqua di rara bellezza. Sono le contraddizioni socio-economiche che penalizzano da un lato e premiano dall’altro una medesima umanità. Qui si è immersi in villaggi remoti che quasi si mimetizzano tra gli arbusti di tè di un verde vivacissimo. Bisogna andarli a scovare, per sorprenderli in tutta la loro vulnerabilità. La presenza di alcuni mariti negli incontri con il presidente della fondazione Magis, Ambrogio Bongiovanni, e con il direttore del progetto, è una peculiarità non sempre scontata e frequente: è un segno buono di coinvolgimento — spiegano le insegnanti — che testimonia di un senso di famiglia che si va riconquistando nonostante i sacrifici della miseria. Di solito sono le donne a prendersi totalmente carico della crescita dei piccoli; trovare anche gli uomini in un’aula scolastica mostra che il lavoro intrapreso con questi progetti non si esaurisce in una trasmissione di elementi base a livello cognitivo, ma comprende un’edificazione integrale della persona che piano piano riacquista consapevolezza del proprio valore e supera il timore del pregiudizio.

La prossima tappa sarà verso nord, ai confini del lembo di oceano che separa l’ex Ceylon dall’India. Lo scenario si dirada, l’impegno al sostegno di questa gente schiva e sensibile, tuttavia capace di tanta affabilità, si fa ancora più sfidante e necessario.

da Hatton (Sri Lanka)
Antonella Palermo