
È giusto obbedire alla notte. Dicevano così gli antichi nei loro versi perfetti. Non so se fossero consapevoli di stabilire, con la chiarezza della poesia, leggi universali. Quanto alla notte, però, non dovevano avere molti dubbi. La notte, infatti, resta sempre la stessa. E bisogna obbedirle perché chiede riposo anche quando il riposo sembra impossibile. Chiede che vengano deposte le armi, anche quando le armi torneranno a scintillare con il primo sorgere del sole. Pretende che si abbandoni il ritmo infernale della produzione, anche se quel ritmo riprenderà a fagocitare ogni desiderio e ogni aspettativa. Impone agli esseri umani di affrontare la propria solitudine di demoni, paure e speranze, anche se al mattino potranno credere che si sia trattato soltanto di un sogno, una realtà di seconda mano, un segmento di tempo destinato a essere dimenticato non appena ci si immerge di nuovo nei piccoli affari della quotidianità. Eppure quel segmento non è né breve né sottile e se lo si tiene in mano senza lasciarlo cadere nell’oblio dell’inutile affaccendarsi può diventare quel che è: la forza invisibile che ci nutre.
A Roma, oggi, lontani oltre tremila anni dalla Grecia dei poeti, se obbediamo alla notte, scopriamo tesori. Perché la mutazione della città, quando il crepuscolo lascia spazio al buio, è enorme. Di notte, la città obbediente si trasforma nella propria anima. Le strade si svuotano, le saracinesche scendono a coprire vetrine e commerci, i parchi chiudono, sui semafori rimbalzano luci gialle e un senso di immobilità ricopre la vita che si trasforma. La vita, infatti, pulsa di continuo, anche quando tutto sembra improvvisamente nascosto dietro alle persiane serrate. Quel che scompare è solo il trambusto vano, le chiacchiere immediatamente dimenticate, le inutili liti. E quel che invece prende il sopravvento è una particolare forma di ribellione, una ribellione silenziosa alle regole stantie dell’oblio quotidiano.
Un popolo di uomini e di donne che, durante il giorno, si sono fatti invisibili, nascondendosi o mimetizzandosi in quello spicchio di realtà invisibile agli occhi di chi corre appresso a illusori obiettivi, emerge dall’abisso. Ognuno ha il suo luogo. C’è chi dorme protetto da cartoni, chi dalla tettoia di negozi dismessi, chi ha una tenda, chi una roulotte, chi non ha nulla. Ognuno però ha una storia da raccontare.
In strada per ascoltare storie
e portare relazioni umane
«Una storia. Un racconto. È questo che cerchiamo» mi dice Michele, trentasette anni, operatore della Caritas, mentre guida in direzione Borghesiana. «Il Servizio Itinerante esiste da dieci anni e non abbiamo altro obiettivo se non parlare con chi vive per strada: sia chi non tornerà indietro, sia chi invece, forse, ha bisogno di tornare indietro. Non abbiamo da dare soluzioni né aiuti, e non proponiamo accoglienza. Vogliamo solo ascoltare storie e portare relazioni umane. Del resto, ogni volta, riusciamo a incontrare due o tre persone. E questo la dice lunga rispetto a chi invece offre decine di pasti. Noi vogliamo un rapporto umano. Non facciamo numeri».
I numeri però sono importanti per raccontare senza eccedere in commenti quel che si ignora. Ossia che a Roma, in soli dieci anni, il popolo di chi vive in strada è quasi triplicato. Si è passati dagli scarsi settemila ai circa ventimila di oggi. Un aumento sconvolgente a cui in gran parte ha contribuito la stagione durissima dei lockdown e dei coprifuoco con gli stravolgimenti economici e sociali di cui sappiamo bene nonché le ricadute psicologiche devastanti.
Un barbecue malmesso
e una tenda ad igloo vuota
È una notte freddissima di fine dicembre e il parco della Borghesiana è sospeso nell’umidità che si condensa in una nebbiolina da sogno. I ragazzi del Servizio Itinerante hanno ricevuto una segnalazione. C’è un uomo, Charlie, che vive nel parco, in una tenda arrangiata, e noi andiamo a cercarlo.
Michele telefona a chi ha segnalato il caso, uno dei molti che raccolgono l’invito sparso per la città a non dimenticare quel che si ha sotto gli occhi. Così, di segnalazioni ne arrivano eccome, di continuo. «Dovrebbe essere qui dietro» fa lui infilandosi nel buio. E noi lo seguiamo. Superiamo una recinzione, prendendo il viottolo che attraversa il parco e immergendoci in un freddo insensato. Oltre a Michele, operatore Caritas che segue il progetto assieme a due colleghi, stanotte c’è uno dei circa trenta volontari. Un centinaio di metri e un barbecue malmesso è il primo segnale. Subito dietro al barbecue, la tenda a igloo sembra aperta.
«È permesso?» chiede Michele avvicinandosi. «Permesso?», lo ripete più volte, ma invano. Mentre saltello per scongiurare il gelo che mi sale su dai piedi, penso alla sfortuna di non trovare qui, oggi, questo Charlie di cui abbiamo fantasticato arrivando, e alla fortuna che lui non sia in questa tenda, stanotte. Poi Michele lo raggiunge sul numero telefonico che chi ha segnalato il caso si era procurato. Charlie è al caldo, in un pronto soccorso dove è ricoverato per i problemi cardiaci che lo perseguitano. «Voglio solo un tetto» ha detto, spiegando brevemente la sua posizione.
«Grazie per essere venuti...
ora torno ai miei sogni»
Non tutti vogliono un tetto. Michele me lo ripete mentre percorre strade perse nel buio per raggiungere Ponte Lungo dove vive una delle persone con cui ha maggiore consuetudine da anni.
Quando arriviamo sta per addormentarsi sotto un carico di coperte. Polacca, poco più che cinquantenne, occupa il grande portone di un cinema dismesso. Sopra al suo giaciglio la mano di qualche writer ha colorato il muro e dipinto il suo nome: Ursula. Si è conquistata l’affetto di parecchie persone del quartiere, Ursula. Sarà la cura con cui ordina le proprie cose, tiene tutto pulito e offre cibo ai gatti. Sarà soprattutto quella forma di gentilezza con cui alcuni sanno proteggere, custodire e nascondere i dolori. I dolori vengono da lontano, dal passato, dalla casa perduta.
E per questo, lo scorso anno, i ragazzi del Servizio Itinerante sono riusciti a convincerla che tornare era possibile. Un treno verso casa, dalla madre sempre più anziana e purtroppo da una cognata con cui è stato impossibile rimarginare le ferite.
Qualche mese e Ursula è tornata a Roma. Alle sue consuetudini. Ogni mattino s’incammina verso il parco della Caffarella per ritrovare i suoi gatti. Ogni sera, quando la città inizia a obbedire alla notte, fa ritorno al suo cinema.
«Grazie di essere venuti» ci dice, quando è ora di salutare. Nel tempo passato con lei, ha tossito la sua bronchite e fumato la sua sigaretta; ha raccontato storie circa il carattere dei gatti; ha spiegato qualcosa circa Ucraina, Europa e Russia; ha trovato il modo di eludere le domande più complicate di Michele che vorrebbe per lei una soluzione diversa. Ma non si può mai lacerare il velo che copre i desideri delle persone. E in fondo non è mai possibile stabilire quale sia il bene altrui.
Michele ci racconta dell’insofferenza di Ursula nei confronti della soluzione che fu trovata per lei al suo ritorno in Italia. Certe convivenze diventano impossibili. Gli spazi di vivibilità si trasformano nella percezione di ciascuno di noi. E a volte rischiamo di far danni solo a tentare una spiegazione.
In fondo, penso mentre il buio ci inghiotte sulla strada di ritorno e Michele guida verso via Marsala, non esiste se non la legge della notte che ognuno recepisce a suo modo. «Torno ai miei sogni» ha detto Ursula lasciandoci. È solo questo ciò che conta. (Matteo Nucci)
di Matteo Nucci