Una poetica

In questa cultura social-media, dove continua ad evaporare la pentola di un diffuso consumismo emotivo, parlare di sentimenti poco di moda come la riconoscenza e la gratitudine sembra quasi una provocazione antidiluviana. Ma credo che se sono riuscito a scrivere e a cantare i miei venti album, a fare ancora concerti e a collaborare con tanti artisti, lo devo molto all’imprinting e al sodalizio artistico che ebbi con Fabrizio De André all’inizio del mio percorso artistico.
Quando venni contattato nella primavera 1976 da Fabrizio ero poco più che ventenne. Ci siamo incontrati la prima volta in un ufficio della casa discografica, la Produttori Associati vicino alla Stazione Centrale di Milano. Parlammo di tutto tranne che di musica e canzoni. Poi mi chiamò l’estate dopo perché lo raggiungessi a Tempio Pausania in Sardegna. Fabrizio la sera mi faceva ascoltare delle canzoni di Brassens e di Brel, traducendomele in simultanea all’orecchio. La musica rock dei miei dischi invece non era nella sua indole, anche se apprezzava molto Bob Dylan che gli traducevo a mia volta. Diceva che ogni generazione aveva la sua musica, la sua lingua e i suoi alcolici preferiti. Infatti lui aveva gli chansonnier, il francese e il whisky. Una sera dopo circa un mese, Fabrizio mi chiese di suonargli qualche mia canzone ed altro che avevo in mente e ne fu colpito, così decidemmo di lavorarci sopra e di iniziare un progetto di album. Nacquero così le prime canzoni come Andrea, Volta la carta e Rimini.
Con Fabrizio avevamo una differenza di età di quattordici anni. Per me era un affascinante fratello maggiore e mi piaceva ascoltarlo nelle sue considerazioni e nei suoi avvincenti racconti sulla sua giovinezza, sui suoi percorsi letterari e sulla sua visione del mondo o meglio weltanschauung che in tedesco rappresenta una dimensione sovrapersonale. Per quanto riguarda l’estrazione sociale io venivo da una famiglia di origine contadina veneta in cui solo mio padre aveva studiato ed era insegnante, mentre Fabrizio veniva da una famiglia dell’alta borghesia piemontese trasferitasi poi a Genova. Suo padre era una persona influente e un manager d’industria importante, oltre che una persona affabile e colta.
Parlavamo spesso della realtà sincrona del nostro paese, delle sue ingiustizie e delle ipocrisie politiche e super omnia della violenza sociale visibile e invisibile. Usavamo nelle canzoni spesso citazioni storiche e significative come per esempio nella canzone Rimini, la confessione di Cristoforo Colombo, la Caccia alle Streghe di Salem, la Sirenetta di Andersen o la Rivoluzione cubana, ma erano tutte immagini atte a suggerire nuove chiavi di lettura del presente e a stimolare chi le ascoltava.
Pensavamo, e penso ancora, che le canzoni fossero una parte rilevante della narrativa popolare e del sentire comune e che quindi bisognasse raccontare la nuova realtà, ma attraverso canzoni che fossero una sorta di sogni rivelatori, si parva licet, come lo era stato per la prima letteratura occidentale che nacque per essere cantata, e pensavamo ad Omero ed Esiodo.
Le canzoni, per la gran parte della gente allora, erano l’unica forma di accesso alla poesia, con la possibilità di memorizzarla avendo ancora l’uso della metrica e della rima. Volevamo costruire una poesia civile e di consapevolezza e che creasse delle riflessioni comuni.
Fabrizio aveva una bellissima casa sul mare di fronte alle Bocche di Bonifacio in Sardegna. Siamo andati spesso a pesca di fronte alla Corsica. Poi comprò un grande appezzamento e ne fece un’azienda agricola nell’entroterra gallurese, fattoria e casa che vidi nascere e crescere e in cui feci anche del lavoro manuale, praticando una sorta di Ora et labora. Per quanto riguarda il lavoro di scrittura, Fabrizio aveva forti problemi di alcolismo e fumava molto e quindi aveva poi un estremo bisogno di dormire per disintossicarsi, perciò spesso lavoravamo in orari diversi e per certi periodi ci vedevamo poco, poi ci confrontavamo quando le ore della veglia coincidevano. Nacque alla fine del suo rapimento, nell’estate del 1980 l’album ribattezzato poi l’Indiano per la sua copertina presa da un quadro del pittore americano Remington con il ritratto di un guerriero Cheyenne a cavallo.
L’idea di fare un disco sull’olocausto dei nativi americani e parallelamente sulla colonizzazione italiana della Sardegna, era qualcosa che sentivamo profondamente ed era nell’aria dai tempi di Coda di Lupo e ci apprestavamo in quei giorni a scrivere e musicare. Da questo percorso nacquero canzoni come Fiume Sand Creek, Quello che non ho, Il canto del servo pastore, Hotel Supramonte, Franziska, Se ti tagliassero a pezzetti.
Sono convinto che Fabrizio De André abbia sempre cercato di parlare a tutti, perché la sua poetica non prevedeva esclusioni di sorta, perché la buona poesia parla al di là dei fatti che l’hanno ispirata, ma si può applicare per leggere altri avvenimenti e ci può parlare ora e ancora.
di Massimo Bubola