Una sedia vuota, il peso dell’assenza. Un lungo applauso, la forza della determinazione. Nel giorno dei 75 anni della dichiarazione universale dei diritti umani, sul palco del municipio di Oslo alla consegna del Nobel per la pace 2023 è stata messa sotto i riflettori l’attuale situazione delle donne in Iran. Narges Mohammadi, vincitrice del premio, non c’era. A ritirare il riconoscimento sono stati Kiana e Ali, i figli gemelli diciassettenni dell’attivista iraniana per i diritti umani, attualmente rinchiusa nella prigione di Evin a Teheran a causa della sua lunga campagna contro la pena di morte e l’uso obbligatorio dell’hijab. Con loro, una gigantografia della donna, dalla folta e scura chioma scoperta.
Non è la prima volta nella storia dei premi Nobel per la pace che il vincitore non può raggiungere Oslo perché in carcere. È successo nel 1935 per il giornalista, scrittore e pacifista tedesco Carl von Ossietzky, nel 1991 per la leader politica birmana Aung San Suu Kyi, nel 2010 per lo scrittore e attivista cinese Liu Xiaobo, lo scorso anno per il difensore dei diritti umani bielorusso Ales Bialiatski.
I figli di Mohammadi sono riusciti ad arrivare in Norvegia solo perché dal 2015 vivono in esilio in Francia. Leggono, un po’ per ciascuno, il discorso scritto in cella dalla madre, che in qualche modo è riuscita a far trapelare da quelle che lei stessa, nel testo, definisce «alte e fredde mura di una prigione», dove sono incarcerati i dissidenti politici della Repubblica islamica.
Parla di un «regime religioso tirannico e misogino» Narges, raccontando la propria storia e quella del suo Paese, da oltre un anno percorso da un moto di protesta che, partito subito dopo la morte di Mahsa Amini, il 16 settembre 2022 mentre era sotto custodia della polizia con l’accusa di non aver indossato correttamente il velo, si è esteso a tutto il mondo: lo slogan a tutt’oggi è “Donna, vita, libertà”, lo stesso scandito durante le manifestazioni e ripetuto da Kiana e Ali a conclusione della lettura del discorso della mamma.
«Sono una donna mediorientale e vengo da una regione che, nonostante la sua ricca civiltà, è ora intrappolata tra la guerra, il fuoco del terrorismo e l’estremismo», ha scritto la premio Nobel, il cui impegno è stato paragonato dalla presidente del Comitato norvegese, Berit Reiss-Andersen, a quello «di Albert Lutuli, Desmond Tutu e Nelson Mandela, che ebbe luogo più di 30 anni prima della fine dell’apartheid in Sud Africa».
In Iran «l’hijab obbligatorio imposto dal governo — ha voluto aggiungere Mohammadi — non è né un obbligo religioso né una tradizione culturale, piuttosto un mezzo per mantenere l’autorità e la sottomissione in tutta la società». Narges ha raccontato la sua condizione e quella di tanti altri: è ora in sciopero della fame «in solidarietà con la minoranza religiosa Bahá'í», vittima di discriminazione in patria. Ma, con uno sguardo al futuro, si è detta certa che «il popolo iraniano smantellerà l’ostruzionismo e il dispotismo attraverso la sua perseveranza».
Proprio poche ore prima della cerimonia a Oslo, da Teheran era arrivata la notizia del ritiro dei passaporti ai familiari di Mahsa, in partenza per Strasburgo, dove avrebbero dovuto ritirare il premio Sakharov per la libertà di pensiero, assegnato dal Parlamento europeo alla ventiduenne curda.