L’ingresso a Betlemme del custode di Terra Santa per la i domenica di Avvento

Con speranza verso il Natale

 Con speranza verso il Natale  QUO-278
04 dicembre 2023

Qualche centinaia di metri a ovest del Checkpoint 300, lungo il muro di separazione tra Gerusalemme e Betlemme, c’è una pesante e alta porta d’acciaio che dà accesso alla strada più diretta per raggiungere la piazza della Mangiatoia e la basilica della Natività. Dal 1995 è usanza che con la prima domenica di Avvento il custode di Terra Santa, proveniente da Gerusalemme, faccia un ingresso solenne nella città nativa di Gesù per dare avvio alle celebrazioni del periodo natalizio. Ma sette anni più tardi, il 16 aprile 2002, a seguito della seconda Intifada, il governo israeliano iniziò la costruzione del muro di separazione. Muro che avrebbe impedito il percorso tradizionale di accesso alla città e alla basilica. Così i frati della Custodia esercitarono una forte pressione sulle autorità israeliane affinché lungo il muro venisse realizzata un’ulteriore porta in corrispondenza di quell’accesso. Ora il grande portone si apre tre volte all’anno: la prima domenica d’Avvento per l’ingresso del custode di Terra Santa, la vigilia di Natale per l’arrivo del patriarca di Gerusalemme dei Latini, che va a celebrare la messa di mezzanotte, e il 5 gennaio per l’ingresso del patriarca greco-ortodosso che va a celebrare il Natale degli ortodossi.

Anche sabato, 2 dicembre, la tradizione si è ripetuta e non avrebbe costituito una rilevante notizia se non che l’ingresso solenne di padre Francesco Patton — cinquantasette giorni dopo l’attacco terroristico di Hamas a Israele e il conseguente inizio della guerra a Gaza — ha costituito il primo rincontro tra le comunità cristiane di Gerusalemme e Betlemme. Solo nove chilometri separano le due città ma da ormai più di vent’anni la costruzione del muro ha creato una lontananza che, fastidio per i pellegrini, è un assillo insostenibile per i betlemiti. Molti degli abitanti sono pendolari che lavorano in Israele e devono transitare, se muniti di permesso, lungo i varchi dei checkpoint che si trovano lungo il muro. Solo fino a poche decine di anni fa dalle terrazze prospicienti la piazza della Mangiatoia si poteva ammirare un panorama di colline brulle abitate da greggi, in fondo non molto dissimile da quei paesaggi di cartapesta che in questi giorni realizziamo nei nostri presepi. Oggi invece il panorama si presenta irrimediabilmente compromesso dal cemento e dalla pietra bianca delle costruzioni erette nei ventitré insediamenti ebraici che circondano la città natale di Gesù. Attraversare i checkpoint non è cosa semplice e ordinaria. Innanzitutto non è facile ottenere i permessi: «Perfino per poter passare con la bicicletta occorre avere un permesso speciale, tanto speciale che non arriva mai», afferma Mahamud, che a Gerusalemme lavora nella ristorazione. E poi, al primo cenno di tensione o di crisi, il checkpoint chiude, e si rimane lì in attesa per ore o per giorni prima di poter tornare a lavorare. Durante il periodo del covid il muro è rimasto chiuso per mesi; tanta gente è rimasta senza stipendio o ha perso il lavoro.

Dalla mattina del 7 ottobre i permessi di transito sono stati sospesi. Gli unici a cui è consentito ancora entrare in Israele sono i trasportatori di generi di prima necessità, gli insegnanti e il personale medico e paramedico. Tutti gli altri restano a casa, e in Palestina non esistono ammortizzatori sociali o compensazioni per i piccoli artigiani e commercianti. I pochi autorizzati a transitare subiscono controlli anche dopo aver passato il muro. Racconta Victor che insegna in una scuola di Gerusalemme: «Ieri mattina sono stato fermato alla Porta di Jaffa a Gerusalemme; oltre all’usuale controllo dei documenti e alla perquisizione hanno preso il mio telefono per controllare se vi fossero fotografie o video in favore di Hamas». Oltre a tutto ciò, a Betlemme è sempre più diffusa la paura. Più volte in queste otto settimane le forze armate israeliane sono entrate in città, principalmente per eseguire mandati di arresto; ne sono seguiti scontri e vi sono state uccisioni di giovani palestinesi.

Il quadro che si è presentato agli occhi di Patton entrando a Betlemme è stato dunque quello di una città impoverita, depressa, impaurita. Un piccolo corteo di auto, guidato dal vicario custodiale, padre Ibrahim Faltas, organizzatore puntuale della giornata, e comprendente una trentina di francescani e diversi giornalisti, si è presentato davanti al monastero di Sant’Elia alle 10,30 di sabato 2 dicembre. Lì, scortati da un contingente di soldati israeliani e da autorità del ministero degli Interni, il padre custode e il suo seguito hanno attraversato il pesante portone d’acciaio, oltre il quale sono stati presi in consegna dalla polizia palestinese. L’ultima parte del percorso è stata fatta da padre Patton e dai frati a piedi, accolti dal sindaco di Betlemme, Hanna Hanania, e dalle autorità civili della zona, preceduti da una rappresentanza degli scout. L’ingresso solenne si è poi concluso con una breve preghiera liturgica nella chiesa di Santa Caterina, attigua alla Basilica, al termine della quale padre Faltas ha osservato: «Questi negli anni passati erano i giorni di maggiore frequentazione di pellegrini a Betlemme, ora vedete invece dinanzi a voi una città spenta, senza albero sulla piazza, una città depressa, ferita, inginocchiata. Certo — ha dichiarato il vicario custodiale a L’Osservatore Romano — una sofferenza comunque non paragonabile alla tragedia che continua a consumarsi dopo la fine della tregua a Gaza. Ho parlato poco fa con il viceparroco di Gaza che mi raccontava come nei giorni della tregua alcuni parrocchiani avessero lasciato la chiesa della Sacra Famiglia, dove sono rifugiati da ormai due mesi, per andare a controllare le loro abitazioni: non solo non hanno trovato più le loro case ma si sono addirittura persi sulla via del ritorno perché, ormai rase al suolo tutte le case, non è più possibile distinguere le strade».

Ieri, 3 dicembre, prima domenica di Avvento, il padre custode Patton ha quindi celebrato in mattinata la messa nella comunità cattolica betlemita. Messa concelebrata con padre Faltas, con il parroco di Betlemme, con il guardiano del convento francescano e con monsignor Natale Albino, segretario della nunziatura apostolica in Israele e della delegazione apostolica in Gerusalemme e Palestina. Durante la messa, affollatissima oltre ogni previsione, Patton ha voluto, insieme alla consapevolezza della triste realtà attuale, trasmettere alcune parole di speranza. Sobrietà, speranza, e vigilanza sono state le tre parole-chiave della sua omelia: «Siamo richiamati alla sobrietà in questo tempo di preparazione al Natale, sobrietà nel cibo per non offendere chi sta soffrendo la fame a Gaza, sobrietà nelle luminarie e negli addobbi come ci è stato richiesto e suggerito dai capi delle Chiese cristiane, ma anche sobrietà nei discorsi, nelle parole e nelle spese, per chi se le può permettere, per rispetto alla sofferenza di tanti. Ma la sobrietà non deve impedirci di coltivare il giusto atteggiamento della speranza. Dobbiamo chiedere la speranza come dono da Dio. Anche le letture di oggi ci inducono alla speranza dicendo che Dio ci è vicino soprattutto quando ci troviamo a vivere in un tempo e una realtà difficili. Non è quando tutto va bene che abbiamo bisogno della speranza, piuttosto quando la situazione ci sembra che sia senza futuro. Attendere Dio e sperare — ha continuato il padre custode di Terra Santa — significa innanzitutto chiedergli di manifestarsi e rendersi presente nella nostra vita e nella nostra storia. Il Vangelo di oggi ci invita a rimanere vigili, svegli. Essere svegli significa oggi fare attenzione perché, in un tempo difficile come quello che stiamo vivendo, è facile cadere nella trappola della manipolazione di chi ci propone altre facili e false forme di salvezza».

da Betlemme
di Roberto Cetera