Liberare gli ostaggi
La liberazione di alcuni ostaggi è un primo passo verso la fine del conflitto in corso tra Israele e Hamas. Lo afferma il patriarca di Gerusalemme dei Latini, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, raggiunto telefonicamente dai media vaticani.
Come commenta le notizie delle ultime ore?
Il fatto che si sia arrivati ad un accordo sulla liberazione di almeno alcuni degli ostaggi è positivo, perché finora l’unico canale di comunicazione era quello militare. Invece, in questo modo si fa un primo passo innanzitutto verso l’allentamento della tensione sia interna che internazionale. Poi è anche un modo per cominciare ad avviare altre soluzioni che non siano quelle militari: intendo soluzioni per la fine del conflitto.
Ci sono state reazioni diverse alla notizia della liberazione degli ostaggi, certamente di soddisfazione. Ma ci sono stati anche alcuni commentatori i quali ritengono che, di fatto, la trattativa stessa rappresenti in qualche modo una sconfitta…
Coloro che — chiamiamoli i “falchi” — vogliono identificare la pace con la vittoria, forse possono pensarla in questo modo. Ma la pace, la soluzione del conflitto, non può essere una vittoria assoluta. Non esiste. Quindi è chiaro che non si può lasciare la soluzione soltanto ai militari. È chiaro che la politica deve riprendere in mano la situazione, dare soprattutto delle prospettive, perché i militari non le hanno. È chiaro dunque che la trattativa, la liberazione degli ostaggi, sono i primi passi per poi avviare percorsi di prospettive politiche per Gaza dopo questa guerra. È necessario.
Abbiamo notizie del fatto che persone sfollate nella parte Nord di Gaza stanno cercando di tornare in quelle che, nella maggior parte dei casi immagino, sono abitazioni distrutte. Che cosa significa?
Per quanto ho potuto capire ancora non c’è questa possibilità. Alcuni vogliono tornare perché la situazione, anche nel sud di Gaza, dove sono stipati tutti questi milioni di persone, non è facile. Quindi vogliono uscire da lì, lo comprendo molto bene. Anche i nostri cristiani che sono chiusi dentro quel piccolo compound della chiesa non ce la fanno quasi più. Però finché non ci sono delle chiare prospettive politiche o di chiarezza sulle prossime fasi, questo ancora non è possibile e può anche essere pericoloso.
Come si può sconfiggere il terrorismo? Come si può sconfiggere un’ideologia come quella di Hamas?
Non è semplice. Bisogna rimuovere, poco alla volta, con pazienza — i tempi sono lunghi — tutto ciò che alimenta quell’ideologia. Quindi bisogna togliere le radici. È inutile tagliare i rami, perché questi possono ricrescere. Innanzitutto bisogna dare ai palestinesi una prospettiva. Questo l’ho detto e so che non è piaciuto a molti: bisogna dare una prospettiva nazionale che ancora non hanno. Questa guerra è una testimonianza molto chiara che i due popoli non possono convivere, almeno non in questo momento. Dovranno avere delle prospettive chiare, definite, precise, più di quanto non sia stato fatto finora. Poi c’è un altro aspetto. Hamas è anche un’ideologia religiosa; quindi il dialogo interreligioso è molto importante, così come è molto importante alimentare, far crescere, un discorso religioso che non sia incentrato sull’odio.
Che cosa possiamo fare come cristiani, ma in generale come persone che pur vivendo distanti da quei luoghi li sentono vicini perché sono i luoghi della vita, dell’esistenza terrena di Gesù? Che cosa si può fare anche a livello di opinione pubblica?
Innanzi tutto c’è la preghiera per i credenti che è la prima cosa da fare. Poi c’è bisogno anche di supporto reale, anche umanitario. Un altro aspetto importante: ho visto che nel mondo si sono create forti divisioni, l’uno contro l’altro. Sembra quasi che sia impossibile amare entrambi. Credo che sia importante, come cristiani, essere chiari anche nel nostro discorso, ma non esclusivi. Chiamare le cose con il loro nome, nella loro verità, e allo stesso tempo cercare di mantenere aperte le relazioni con tutti e dire a tutti, a entrambi, che noi gli vogliamo bene.
di Andrea Tornielli