Israele, mosaico di culture
e religioni

Worshipers hold Friday prayer in the Al-Aqsa compound, also known to Jews as the Temple Mount, in ...
21 novembre 2023

Israele sta attraversando un momento di decisioni e crisi cruciali: sul piano militare, su quello della coesione nazionale (fino a un mese e mezzo fa la società era politicamente divisa sul tema dell’assetto istituzionale e dei poteri interni), sulla questione dei coloni e della Cisgiordania. Decisioni e crisi che investono una realtà complicata, fatta di tante sfaccettature culturali, religiose e comunitarie, e che mettono questa complessità alla prova. Basti ricordare che più del 20% dei cittadini israeliani sono arabi di fede islamica e cristiana, con una rappresentanza di deputati alla Knesset, o che nel Paese vivono altre importanti minoranze etniche, come quelle dei drusi e dei beduini.

La minoranza araba di cittadini israeliani, eredi di coloro che dopo la guerra del 1948 rimasero nei confini dello Stato israeliano, è un fattore decisivo nel futuro del Paese. Si tratta di due milioni di persone di cui la maggioranza possiede un regolare passaporto israeliano. Nelle elezioni del 2015 il partito arabo, con 14 deputati, si è affermato come la terza formazione politica nella Knesset. Nel 2022, a causa delle divisioni in più liste, gli arabi sono riusciti a eleggere solo quattro rappresentanti. Dal 2023, con il governo di estrema destra guidato da Benjamin Netanyahu, sui partiti arabi è cominciata a pesare la minaccia di essere messi fuorilegge. Il 7 ottobre ha rimesso in gioco tutto: se da un lato è calata una cappa di controllo, censura , arresti preventivi sui cittadini palestinesi, visti dai falchi del governo israeliano come il nemico interno o addirittura il quarto fronte (dopo Hamas, Hezbollah e palestinesi dei territori occupati), dall’altro, accelerando un processo avviato da tempo, un numero consistente di giovani della minoranza araba si sono arruolati come volontari per combattere a fianco dei coetanei ebraici nell’operazione di Gaza contro Hamas.

Il tabù del servizio militare si è infatti rotto per una nuova generazione di palestinesi israeliani (specie nella componente cristiana, l’11% della minoranza araba) determinati ad integrarsi nella società di Israele. Vi è persino un’unità esclusivamente araba, di 500 militari, nelle forze armate israeliane: si chiama Gadsar.

Storico è invece il “patto di sangue”, in ebraico “brit damin”, che lega un’altra minoranza religiosa araba ad Israele. Parliamo dei drusi, una componente di circa 150.000 persone, la cui religione si differenzia dall’Islam. Durante il mandato britannico sulla Palestina, i drusi non si unirono al nazionalismo arabo, e nel 1948 si offrirono volontari nell’esercito israeliano, dove ricoprono oggi ruoli di comando molto delicati. Lo stesso Benjamin Netanyahu rivelò una volta di essere debitore della vita a un soldato druso, che lo aveva salvato in battaglia.

Ci sono poi i circa 130.000 beduini arabo-israeliani, eterni nomadi del deserto, un popolo delle tende che non ha mai voluto farsi rinchiudere nelle città costruite per loro dai governi israeliani. Tragicamente il loro destino si è intrecciato con quello di centinaia di ebrei, durante l’attacco terroristico di Hamas nel sud di Israele, lo scorso 7 ottobre. Una ventina di loro sono stati massacrati nel Negev dai miliziani islamisti; altri quattro sono stati rapiti e fanno parte degli ostaggi nascosti nella Striscia.

Beduini, drusi, arabi sono solo alcune delle tante componenti che formano quel mosaico chiamato Israele, un Paese erroneamente ridotto, nella percezione esterna, ad un soggetto unitario e omogeneo. Se già nella consistente minoranza araba di cittadini israeliani ci sono voci diverse e spesso opposte tra loro, diventa un’impresa quasi impossibile elencare le declinazioni della maggioranza ebraica. Alcune sono vere linee di demarcazione, come quella tra un’estrema destra governativa, pronta sia dal punto di vista politico che religioso ad una svolta autoritaria per porre il potere giudiziario sotto il controllo del potere esecutivo, e i milioni di cittadini che hanno manifestato a difesa della democrazia, ogni sabato sera dal gennaio 2023 al 7 ottobre scorso. Oppure la linea che oppone il movimento dei pacifisti, che difendono i palestinesi e il loro diritto ad avere uno Stato indipendente, alla marea crescente di oltre 700.000 coloni che, con il sostegno e l’incoraggiamento degli ultimi governi israeliani, dilagano con i loro insediamenti illegali nei territori palestinesi.

A popolare le colonie sono soprattutto gli immigrati dalla Russia e dall’Ucraina, parte di quella fase dell’Alya (Ascesa alla Terra Promessa) avvenuta negli anni novanta dello scorso secolo, che ha coinvolto circa un milione di ebrei delle terre ex sovietiche, di cui però quasi 300.000 non sono stati riconosciuti tali dal Grande Rabbinato di Gerusalemme. In qualche modo profughi loro stessi, perseguono con ferocia l’obiettivo di espellere i palestinesi dalla Giudea e Samaria bibliche, ovvero dalla Cisgiordania, rendendo di fatto impossibile la soluzione dei due Stati indipendenti, israeliano e palestinese.

Ci sono poi demarcazioni di carattere più esistenziale e religioso , come quella tra gli ultraortodossi “haredim” (i timorati di Dio che, in attesa del Messia, rifiutano il servizio militare, passano la vita a studiare i testi sacri e non riconoscono lo Stato di Israele, nonostante siano mantenuti proprio da quello Stato) e la popolazione laica di Tel Aviv. E ancora contano differenziazioni etniche, come quella tra gli ebrei ashkenaziti, di origine europea, e i sefarditi, provenienti dai paesi del nord Africa e mediorientali.

Proprio in quanto la nazione israeliana è una società così complessa, è difficile fare previsioni su che impatto potrà avere la guerra di Gaza e che reazioni potrà produrre. Ciascuna di queste componenti ha una sua visione e una sua traiettoria per l’evoluzione della società e dello Stato. Le grandi sintesi, come quella espressa dalla classe dirigente del Paese dopo il 1948, sembrano drammaticamente mancare, lasciando campo libero alle radicalizzazioni di prospettiva e di esercizio del potere. Oggi come non mai, tuttavia, il destino e l’anima stessa di Israele dipendono dalla sua pluralità di storie e di soggetti, dal loro combinarsi e dalle direzioni che riusciranno a imprimere al futuro del Paese.

di Elisa Pinna