Hic sunt leones
Un dilemma che riguarda anche l’intero continente

La crisi israelo-palestinese
e l’Africa

 La crisi israelo-palestinese e l’Africa   QUO-252
03 novembre 2023

Il conflitto tra Israele e Hamas, mentre scriviamo, preoccupa non poco la diplomazia internazionale per gli effetti devastanti del conflitto sulla popolazione civile e per le crescenti turbolenze che sta generando in tutto lo scacchiere mediorientale. A livello globale vengono ancora una volta messi in discussione i già precari equilibri all’interno del consesso delle nazioni. Viene pertanto spontaneo domandarsi quale possa essere il posizionamento dei Paesi africani in uno scenario globale pesantemente segnato da una sorta di disordine globale.

In questi ultimi anni Israele ha profuso notevoli sforzi per normalizzare le sue relazioni con molti governi africani, godendo del sostegno degli Stati Uniti sulla scena internazionale. Gli accordi di Abraham, in vigore dal 15 settembre 2020, tra Israele, Emirati Arabi Uniti (Eau) e Bahrein, avevano dato un grande impulso nel promuovere proficue relazioni tra Tel Aviv e i Paesi africani, anche se poi non sono mancate le difficoltà.

Emblematico è stato quanto è avvenuto ad Addis Abeba, nel febbraio scorso, in apertura dei lavori della 63° sessione ordinaria dell’assemblea dell’Unione africana (Ua). Sharon Bar-Li, ambasciatrice e vicedirettrice della sezione Africa presso il ministero degli Esteri israeliano, è stata costretta a lasciare l’aula da agenti di sicurezza durante la cerimonia di apertura del summit. La motivazione ufficiale è stata perentoria: non era correttamente accreditata per presenziare all’evento come osservatore. La notizia ha avuto una grande risonanza sulle principali testate giornalistiche africane che hanno fedelmente riportato la dichiarazione di Ebba Kalondo, portavoce della Ua, la quale ha spiegato che l’invito — non trasferibile ad una persona terza — era stato rivolto ad Aleli Admasu, ambasciatore israeliano, di origine etiope, accreditato alla Ua. «È spiacevole — ha commentato la signora Kalondo — che la persona in questione abbia abusato della nostra cortesia».

Naturalmente, non s’è fatta attendere la reazione di Tel Aviv che ha replicato sostenendo che l’accredito era da ritenersi valido. L’espulsione, secondo il governo israeliano, sarebbe stato istigato da due Stati «guidati dall’odio nei suoi confronti», come Sud Africa e Algeria, con lo zampino di uno dei suoi arcirivali, il governo di Teheran. Non è un mistero che da diverso tempo Pretoria qualifichi come apartheid il regime in cui le autorità israeliane sottomettono la popolazione palestinese. Lo stesso per quanto concerne l’Algeria che, oltre ad essere stata uno storico sostenitore della lotta armata contro il regime segregazionista ai tempi di Nelson Mandela, fa parte del fronte dei Paesi arabi che contestano la politica di Tel Aviv. Detto questo però è bene ricordare che la posizione della Ua è stata alquanto contraddittoria. Infatti, nel summit del 2021, condannò ufficialmente Israele per l’occupazione dei territori palestinesi. Ma solo pochi mesi dopo, l’allora presidente di turno, il ciadiano Moussa Faki Mahamat, assegnò unilateralmente il ruolo di osservatore esterno ad Israele. Una decisione che vari Paesi membri contestarono imponendone la sospensione. Si tentò di rimediare al pasticcio sotto la presidenza del senegalese Macky Sall nel 2022. Egli infatti, sottolineando come 44 Paesi dell’Ua riconoscano Israele e intrattengano con Tel Aviv scambi nel campo della formazione, della difesa e della sicurezza, formulò la proposta di creare un comitato ad hoc, da cui ottenere un parere per l’assegnazione del seggio di osservatore entro quest’anno. Cosa che di fatto non è avvenuta, motivo per cui Clayson Monyela, portavoce del dipartimento delle relazioni internazionali e della cooperazione del governo sudafricano, respingendo le accuse di Tel Aviv, ha dichiarato che «fino a quando la Ua non prenderà una decisione sulla concessione dello status di osservatore ad Israele, non gli si potrà riservare un posto al summit (…) È una questione di principio». Detto questo, è evidente che qualcosa non ha funzionato ad Addis Abeba, non foss’altro perché l’ambasciatrice espulsa dal summit disponeva comunque di un badge diplomatico per accedere al vertice dei capi di Stato e di governo africani.

Storicamente, Israele, negli anni Sessanta, coltivò stretti legami con i Paesi africani divenuti indipendenti per contrastare l’isolamento e l’ostilità impostigli dai suoi vicini arabi. Allora, è bene rammentarlo, nella macroregione subsahariana più di 1.800 esperti israeliani gestivano programmi di sviluppo e nel 1972 Israele arrivò a ospitare più ambasciate africane della Gran Bretagna. Tel Aviv complessivamente aveva stabilito relazioni diplomatiche con 32 degli allora 41 Stati africani indipendenti che erano anche membri dell’Organizzazione dell’Unità africana (Oua), fondata nel 1963 e precursore della Ua. Per gran parte di questo periodo, i tentativi delle nazioni nordafricane, guidate dall’Egitto, di ottenere il sostegno per la causa araba dal resto dei Paesi africani, non ebbe successo, poiché queste ultime non intendevano rimanere invischiate nel conflitto israelo-palestinese. Tuttavia, le prime vere incrinature nelle relazioni israelo-africane si manifestarono in seguito alla guerra del Kippur combattuta dal 6 al 25 ottobre del 1973. Ben otto Paesi africani interruppero le relazioni con Israele e in occasione del decimo anniversario dell’Oua, il suo segretario generale d’allora, il camerunese Nzo Ekangaki, dichiarò apertamente che «finché Israele continuerà a occupare parti del territorio di uno dei membri fondatori dell’Oua, l’Egitto, continuerà a subire la condanna dell’Oua». Tuttavia, già a quei tempi, non pochi governi africani si rifiutarono di rinunciare alle loro relazioni con Israele per sostenere la causa palestinese. Ecco che allora si è gradualmente delineata una spaccatura tra Paesi africani filo israeliani e altri di segno contrario.

I fatti di Gaza di queste settimane hanno acuito la divaricazione di vedute. Il presidente della commissione della Ua, il ciadiano Moussa Faki Mahamat, in particolare, ha attribuito la violenza alla «negazione dei diritti fondamentali dei palestinesi» esortando urgentemente le due parti «a porre fine al conflitto militare e a tornare incondizionatamente al tavolo dei negoziati per applicare il principio di due Stati che vivono fianco a fianco, salvaguardando così gli interessi del popolo palestinese e del popolo israeliano». Significativa è la posizione del governo federale nigeriano che ha sottolineato come «la spirale di violenza e ritorsioni dell’attuale conflitto non farà altro che continuare, procrastinando un ciclo infinito di dolore e sofferenza». Pertanto, le autorità di Abuja, per bocca del proprio ministro degli esteri, Yusuf Tuggar, hanno ribadito il loro appello per una tregua umanitaria immediata e duratura tra le forze israeliane e Hamas. Diverso è il posizionamento del Kenya, dello Zambia, del Ghana e della Repubblica Democratica del Congo che si sono schierati apertamente in difesa di Israele. Di converso, il Sud Africa è sempre più critico nei confronti dell’esecutivo di Tel Aviv, anche se questo gigante africano è di gran lunga il suo principale partner commerciale nel continente africano. Nel 2021, il commercio tra Israele e i Paesi dell’Africa subsahariana ha superato i 750 milioni di dollari. Di questi, quasi due terzi sono con il Sud Africa, seguito dalla Nigeria, con cui Israele ha scambiato beni per un valore di 129 milioni di dollari nel 2021.

In termini generali, oggi Israele è presente in Africa attraverso attività di cooperazione nel campo agricolo e tecnologico. Inoltre, l’intelligence israeliana collabora fattivamente con le autorità di diversi Paesi del continente, tra i quali figurano il Ciad, la Tanzania, il Ghana e il Senegal, per fornire strumenti operativi contro eventuali attacchi terroristici. L’agenzia di cooperazione israeliana, Mashav, oltre a promuovere la formazione nel settore agricolo, opera congiuntamente con organizzazioni non governative che si occupano di attività umanitarie e di soccorso in Africa.

Una cosa è certa: le divisioni dell’Africa sulla crisi israelo-palestinese evidenziano il tentativo di ciascun governo di salvaguardare i propri interessi. Da un lato ci sono legami radicati con il movimento palestinese; dall’altro, l’offerta di tecnologie all’avanguardia, assistenza militare e aiuti da parte di Israele. Come già avvenuto in riferimento alla crisi russo-ucraina, l’Africa fa fatica ad elaborare un pensiero politico unitario, in un contesto internazionale dove le divisioni sono sempre più evidenti. La regina di Saba, stando alla Bibbia, andò a Gerusalemme. Oggi, visti i tempi che corrono, non sappiamo se lo farebbe ancora.

di Giulio Albanese