Nuove guerre
vecchi schemi

epa10928617 The damaged Greek Orthodox Saint Porphyrius Church following an overnight airstrike in ...
21 ottobre 2023

C’è qualcosa che ci sfugge nel significato di certe parole. O meglio il significato che correntemente gli si attribuisce.  Prendiamo due parole in uso in questi giorni. Il termine inglese “casualties”; in italiano spesso riferito con “danno collaterale”. Collaterale è un qualcosa che si aggiunge, ma che in qualche modo è inevitabile. Diciamo che si da un danno collaterale, quando in un combattimento in cui muoiono dieci soldati, c’è uno sfortunato civile che, essendosi trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato, ci rimette la vita. Dunque 10 soldati e un civile.  Ma quello a cui stiamo assistendo da 14 giorni a questa parte è un “danno inversamente collaterale”. Da entrambe le parti il rapporto è 10 civili morti per un soldato. L’effetto collaterale nei disumani attacchi terroristici ai kibbutzhim e nei bombardamenti su Gaza, è che oltre le migliaia di civili morti, le casualties hanno riguardato anche un militare o un miliziano. 

Non che la vita dei militari conti di meno o ci risulti indifferente, ma questa ormai acquisita ordinarietà del sacrificio di vittime innocenti ci scandalizza, ci immiserisce. Come ha detto Edith Bruck su queste pagine «Non ci sono mai guerre giuste, ma almeno una volta erano due eserciti che si scontravano […] queste non si possono nemmeno chiamare guerre bensì massacri selvaggi».

In queste nuove “guerre” si nota anche una sorta di accettazione passiva dell’ineluttabilità del meccanismo attacco-reazione. Fa parte di quegli “schemi di guerra” di cui ha parlato spesso Papa Francesco, schemi che l’umanità testarda non riesce a spezzare.

Amiamo Israele e il suo popolo, e non ci stancheremo mai di sostenere le ragioni della sua esistenza e del suo diritto a difendersi dal terrorismo. Ma non possiamo esimerci dal chiederci e dal chiedere: quanti degli oltre 4.000 uccisi a Gaza nelle ultime due settimane erano terroristi di Hamas e della Jihad islamica? E le operazioni via terra devono ancora iniziare. Quella quarantina di nostri fratelli nella fede sepolti sotto le macerie della loro chiesa a cosa erano “collaterali”?

Il presidente Biden e il premier Sunak sono volati in Israele, Macron si sta spendendo molto e con lui le cancellerie di mezzo mondo. L’Europa è mobilitata, forse consapevole del riflesso pavloviano che la inchioda alle lontane origini di questo conflitto. Una grande attività che se fosse stata esercitata prima del 7 ottobre, quando erano già evidenti i segni di una irrimediabile degenerazione, ci avrebbe evitato di assistere a queste tragedie.

  Il nostro giornale — e con noi il patriarca Pizzaballa — da mesi ha denunciato la scomparsa del conflitto israelo-palestinese dai radar delle cancellerie occidentali. Ma anche tra i politici internazionali che cercano ora un ruolo di mediazione spicca un’altra parola che anch’essa necessita una disamina: “corridoio umanitario”.  Un corridoio umanitario presuppone una guerra. Tutti i leader intervenuti sulla scena hanno reclamato l’apertura di corridoi umanitari, nessuno ha chiesto un immediato “cessate il fuoco”.

  Un solo leader globale, in questa occasione come già in quella della guerra di aggressione della Russia ai danni dell’Ucraina, ha chiesto il cessate il fuoco: è Papa Francesco. Che ha provato a spezzare lo schema di guerra e a proporre lo schema di pace. Ma si sa, lo dice la storia, i profeti di pace sono spesso indicati tali in quanto rimangono inascoltati. La voce profetica di chi avverte che  finché ognuno resta concentrato sul proprio dolore e non riconosce quello dell’altro è impossibile passare dall’odio alla compassione.  E che finché da una parte e dall’altra non si riuscirà a riconoscere la dignità delle vittime del campo avverso non si uscirà da questa spirale di odio. 

di Andrea Monda