Hic sunt leones
Il dramma di profughi e sfollati causati dalla guerra in corso tra esercito e paramilitari

Sudan: un Paese in ginocchio

 Sudan: un Paese in ginocchio  QUO-236
13 ottobre 2023

In Africa vi è un Paese che non ha quasi mai conosciuto la pace: il Sudan. Infatti, la guerra civile attualmente in corso, che sta seminando morte e distruzione, è la terza da quando ottenne l’indipendenza dal Regno Unito il 1° gennaio del 1956. Mentre scriviamo, la situazione, dal punto di vista umanitario, è disperata.

Attualmente, i combattimenti sono in corso nella capitale Khartoum, nella regione occidentale del Darfur e in quella del Kordofan, e hanno causato 4,3 milioni di sfollati interni e 1,2 milioni di rifugiati che sono stati costretti per ragioni di sopravvivenza ad abbandonare il loro Paese. Di questi, circa il 40 per cento si è diretto a nord, in Egitto. Altri 300.000 sono sud sudanesi fuggiti in precedenza in Sudan e che ora stanno premendo per rientrare nel loro Paese d’origine. I restanti rifugiati hanno trovato riparo nella Repubblica Centrafricana, in Ciad e in Etiopia, che peraltro già ospitano una consistente popolazione di rifugiati e sfollati interni. Riuscire ad avere un computo esatto delle vittime in Sudan, molte delle quali sono civili, è assai arduo se non impossibile. Secondo le ultime stime, che comunque vanno prese con il beneficio d’inventario, i morti sarebbero circa 8.000. I danni causati alle abitazioni, agli edifici pubblici e alle infrastrutture sono indicibili.

Gli esperti delle Nazioni Unite affermano che probabilmente il numero totale di rifugiati sudanesi continuerà a crescere man mano che i combattimenti proseguono senza soluzione di continuità. La maggior parte dei rifugiati sono donne e bambini, che sono più vulnerabili all’aumento dei tassi di violenza sessuale e di genere, anche se sono stati segnalati casi di civili di tutte le età che subiscono violazioni dei diritti umani.

Come se non bastasse, vi è sempre più un diffuso timore per la possibile diffusione di epidemie per il progressivo deterioramento delle condizioni igenico-sanitarie. Decine di milioni di persone non hanno più accesso all’acqua potabile e l’aumento dei costi di cibo e del carburante stanno acuendo a dismisura l’insicurezza alimentare, che si prevede riguarderà complessivamente 19 milioni di persone entro la fine dell’anno. A Gedaref, capitale dell’omonimo Stato sudanese, è già arrivato il colera e 16 persone hanno perso la vita.

Questo inferno di dolore si è scatenato quando lo scorso 15 aprile sono scoppiati i combattimenti tra l’esercito regolare, le Sudanese armed forces (Saf) sotto il comando del generale Abdel Fattah Abdelrahman al-Burha e le Rapid support forces (Rsf), una formazione paramilitare guidata dal generale Mohamed Hamdan Dagalo (detto Hemetti). Sebbene i due leader — al-Burhan ed Hemetti — fossero rispettivamente presidente del Consiglio supremo di transizione (Tsc) e vice presidente, il dissenso tra i due è sfociato in un vero e proprio conflitto armato.

Oggetto del contenzioso questioni particolarmente complesse, come la riforma del settore della sicurezza nazionale, con la creazione di un unico esercito nazionale. Ed è stata soprattutto la possibile unificazione tra le forze armate sudanesi e l’Rsf, operazione fortemente osteggiata da Hemetti, a far precipitare la situazione.

Chiaramente, dietro le quinte, a detta degli osservatori, si celano non poche interferenze da parte, ad esempio, dello zoccolo duro degli islamisti legati al vecchio regime del deposto presidente Omar Hassan al-Bashir, per non parlare degli interessi economici che fanno gola a potentati d’ogni genere, più o meno occulti. Ricco di oro, gas naturale, petrolio e ferro, il Sudan è tradizionalmente al centro di interessi geostrategici, sebbene la secessione del Sud Sudan abbia penalizzato Khartoum dal punto di vista delle attività estrattive del cosiddetto oro nero. Bagnato dal Mar Rosso, il Sudan confina sul versante opposto con il Sahel e le sue frontiere si affacciano sul Corno d’Africa. È in sostanza una cerniera per il commercio con i Paesi dell’Africa centrale, del Nord Africa e dei Paesi del Golfo.

In questo scenario è importante rilevare il posizionamento di vaste componenti della società civile che, sebbene siano state silenziate, criticano sottovoce, attraverso la diaspora, l’acerrima contesa tra al-Burhan ed Hemetti, accusandoli di lottare per rimanere al potere. Come evidenziato in più circostanze dall’organizzazione Sudan policy and transparency tracker, con base a West Orange nel New Jersey, che si occupa di monitorare con grande scrupolo le politiche e le istituzioni sudanesi, l’inquadramento dei due contendenti all’interno del Tsc sarebbe stato una sorta di matrimonio di convenienza finalizzato a estromettere le forze pro-democrazia dai giochi di palazzo, vanificando così il processo di transizione che prevedeva la consegna del potere ad un esecutivo civile.

Nel frattempo, le iniziative diplomatiche a livello internazionale volte a mediare non hanno avuto successo. Queste vedono in prima fila il quartetto Stati Uniti, Regno Unito, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita che comunque finora non ha conseguito i risultati sperati, soprattutto se si considera che sono poco meno di una ventina i cessate il fuoco falliti, così come piani di pace infruttuosi offerti dall’Unione africana (Ua) e da altri organismi regionali. Una conferenza guidata dall’Egitto con i vicini del Sudan a luglio aveva stabilito la creazione di corridoi umanitari e la messa a punto di una piattaforma per il dialogo negoziale tra le parti, ma anche in questo caso è mancata la volontà politica, da parte dei contendenti, di passare dalle parole ai fatti.

Nel suo recente intervento all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, al-Burhan ha evidenziato che la crisi sudanese rischia di espandersi a livello regionale, auspicando che siano esercitate pressioni internazionali sulle forze paramilitari che sta combattendo, compresa la loro designazione come “terroristi”. Ha poi negato che quanto sta avvenendo sia una “faida interna” al sistema Paese, puntando il dito contro il suo antagonista. Ringraziando il segretario generale, le Nazioni Unite e le loro agenzie per il sostegno e l’aiuto umanitario, al-Burhan ha poi ricordato che il suo governo ha invitato tutte le agenzie a soddisfare le necessità del popolo sudanese in termini di cibo, medicine e riparo. Infine, ha ribadito il suo impegno nel trasferimento del potere al popolo attraverso un processo pacifico e legittimo. Un periodo di transizione può essere seguito da elezioni generali. Ha espresso pieno impegno nei confronti dell’accordo di pace di Giuba firmato nel 2020. Ma è evidente che tutto questo sarà possibile solo se si perverrà ad una cessazione delle ostilità.

Uno spiraglio si è aperto recentemente quando ha dichiarato alla Bbc, in un’intervista, a seguito del suo intervento all’Assemblea generale dell’Onu, di essere pronto a incontrare Hemetti, precisando che la controparte dovrà assolutamente rispettare la protezione dei civili, impegno preso a Gedda in Arabia Saudita lo scorso maggio.

A questo punto, stando ad alcune fonti giornalistiche, pare che Hemetti sia disposto a trattare, anche se gli analisti invitano ad esercitare un sano realismo di fronte all’evolversi di uno scenario nel quale sta tuttora avvenendo ciò che Papa Francesco in varie occasioni ha condannato senza ma e senza se: gli approvvigionamenti di armi e munizioni dall’estero. A riprova che dietro le quinte, come spesso avviene negli scenari di guerra, c’è qualcuno che getta benzina sul fuoco.

di Giulio Albanese