Il magistero

 Il magistero  QUO-235
12 ottobre 2023

Venerdì 6

L’economia che uccide esclude
inquina è una perversione

È bello ritrovarvi a un anno dall’evento di Assisi e sapere che il vostro lavoro per rianimare l’economia va avanti. Le idee ispirano e ce n’è una che sin da quando ero giovane studente di teologia, mi affascina. In latino si chiama coincidentia oppositorum, cioè l’unità degli opposti.

Secondo questa idea la realtà è fatta di poli opposti, di coppie che sono in opposizione tra loro. Alcuni esempi sono il grande e il piccolo, la grazia e la libertà, la giustizia e l’amore.

Cosa fare di questi opposti? Si può scegliere uno dei due ed eliminare l’altro. Oppure, come suggerivano gli autori che studiavo, nel tentativo di conciliare gli opposti, si potrebbe fare una sintesi, evitando di cancellare un polo o l’altro, per risolverli in un piano superiore, dove però la tensione non sia eliminata.

Ogni teoria è parziale, limitata. Così è anche ogni progetto umano. La realtà sfugge sempre.

Da giovane gesuita questa idea dell’unità degli opposti mi sembrava un paradigma efficace per capire il ruolo della Chiesa nella storia.

Però è utile per capire che cosa succede nell’economia di oggi. Grande e piccolo, povertà e ricchezza e tanti altri opposti ci sono anche in economia.

Economia sono le bancarelle del mercato, come gli snodi della finanza internazionale; l’economia concreta fatta di volti, sguardi, persone, di piccole banche e imprese, e l’economia tanto grande da sembrare astratta delle multinazionali, degli Stati, delle banche, dei fondi d’investimento; l’economia del denaro, dei bonus e di stipendi altissimi accanto a una economia della cura, delle relazioni umane, di stipendi troppo bassi per poter vivere bene.

La coincidenza tra questi opposti si trova nella natura autentica dell’economia: essere luogo di inclusione e cooperazione, generazione continua di valore da creare e mettere in circolo con gli altri.

Il piccolo ha bisogno del grande, il concreto dell’astratto, il contratto del dono, la povertà della ricchezza condivisa.

Tuttavia ci sono opposizioni che non generano un’armonia.

L’economia che uccide non coincide con un’economia che fa vivere; l’economia delle enormi ricchezze per pochi non si armonizza dal proprio interno con i troppi poveri che non hanno di come vivere; il gigantesco business delle armi non avrà mai nulla in comune con l’economia della pace; l’economia che inquina e distrugge il pianeta non trova nessuna sintesi con quella che lo rispetta e lo custodisce.

È in queste consapevolezze il cuore della nuova economia per la quale vi impegnate.

L’economia che uccide, che esclude, che inquina, che produce guerra, non è economia: è solo un vuoto, un’assenza, è una malattia, una perversione dell’economia stessa e della sua vocazione.

Le armi prodotte e vendute per le guerre, i profitti fatti sulla pelle dei più vulnerabili e indifesi, come chi lascia la propria terra in cerca di un migliore avvenire, lo sfruttamento delle risorse e dei popoli che rubano terre e salute: questo non è economia. È prepotenza, violenza, un assetto predatorio da cui liberare l’umanità.

L’economia
della terra

L’economia della terra viene dal primo significato della parola economia, quello di cura della casa.

La casa non è solo il luogo fisico dove viviamo, ma è la nostra comunità, sono le nostre relazioni, le città che abitiamo, le nostre radici.

Per estensione, la casa è il mondo intero, l’unico che abbiamo, affidato a tutti noi.

Per il solo fatto di essere nati siamo chiamati a diventare custodi di questa casa comune e fratelli e sorelle di ogni abitante della terra.

Fare economia significa prenderci cura della casa comune, e questo non sarà possibile se non avremo occhi allenati a vedere il mondo a partire dalle periferie: lo sguardo degli esclusi, degli ultimi.

Finora lo sguardo sulla casa che si è imposto è stato quello degli uomini, dei maschi, in genere occidentali e del nord del mondo.

Lo sguardo
delle donne

Abbiamo lasciato fuori per secoli lo sguardo delle donne: ci avrebbe fatto vedere meno merci e più relazioni, meno denaro e più redistribuzione, più attenzione a chi ha e a chi non ha, più realtà e meno astrazione, più corpo e meno chiacchiere.

Non possiamo continuare a escludere sguardi diversi dalla prassi e dalla teoria economica, così come dalla vita della Chiesa. L’economia integrale è quella che si fa con e per i poveri, gli esclusi, gli invisibili, che non hanno voce per farsi sentire.

Dobbiamo trovarci lì, sulle faglie della storia e dell’esistenza e, per chi si dedica allo studio dell’economia, anche alle periferie del pensiero, che non sono meno importanti.

Quali sono le periferie della scienza economica? Non basta un pensiero su e per i poveri, ma con i poveri, con gli esclusi.

Anche nella teologia abbiamo troppe volte “studiato i poveri” ma abbiamo poco studiato “con i poveri”: da oggetto della scienza devono diventare soggetti, perché ogni persona ha storie da raccontare, ha un pensiero sul mondo: la prima povertà dei poveri è essere esclusi dal dire la loro, dalla stessa possibilità di esprimere un pensiero.

Si tratta di dignità e rispetto, troppo spesso negati.

L’economia
del cammino

Ecco allora l’economia del cammino. Se guardiamo l’esperienza di Gesù e dei primi discepoli è quella del “Figlio dell’uomo che non sa dove posare il capo”.

Uno dei più antichi modi di descrivere i cristiani era: “quelli della via”.

E quando Francesco d’Assisi iniziò la sua rivoluzione anche economica in nome del solo vangelo, tornò mendicante, errante: si mise a camminare, lasciando la casa di suo padre.

Quale via, allora, per chi vuole rinnovare dalle radici l’economia? Il cammino dei pellegrini è da sempre rischioso, intessuto di fiducia e di vulnerabilità.

Chi lo intraprende deve presto riconosce la sua dipendenza dagli altri, lungo il percorso: così anche l’economia è mendicante delle altre discipline e saperi.

E come il pellegrino sa che il viaggio sarà impolverato, così voi sapete che il bene comune richiede un impegno che sporca le mani.

Solo le mani sporche sanno cambiare la terra: la giustizia si vive, la carità si incarna e, solidali nelle sfide, in esse si persevera con coraggio.

Essere economisti e imprenditori “di Francesco” oggi significa essere necessariamente donne e uomini di pace: non darsi pace per la pace.

Non abbiate paura delle tensioni e dei conflitti, cercate di abitarli e di umanizzarli, ogni giorno.

Vi affido il compito di custodire la casa comune e avere il coraggio del cammino. È difficile, ma so che voi potete farcela.

So che non è immediato inserire i vostri sforzi e condividere i vostri sogni all’interno delle vostre Chiese e tra le realtà economiche dei territori che abitate.

La realtà sembra già configurata, spesso impermeabile come un terreno su cui non piove da troppo tempo.

Non vi manchino pazienza e intraprendenza per lasciarvi conoscere e per stabilire connessioni via via più stabili e feconde.

Il desiderio di un mondo nuovo è più diffuso di quanto appaia.

Non chiudetevi in voi stessi: le oasi nel deserto sono luoghi cui tutti devono potere accedere, crocevia in cui sostare e da cui ripartire diversi.

Rimanete aperti e cercate con determinazione ed entusiasmo i vostri colleghi, i vostri vescovi, i vostri concittadini.

E in questo i poveri siano con voi. Date voce e date forma a un popolo, perché la concretezza dell’economia e delle soluzioni che state studiando e sperimentando coinvolgono la vita di tutti.

C’è più spazio per voi di quanto oggi non appaia. Vi chiedo di rimanere attivamente uniti, costruendo su temi operativi veri e propri ponti fra i continenti, che portino definitivamente fuori l’umanità dall’era coloniale e delle diseguaglianze.

Date volti, contenuto e progetti a una fraternità universale.

Siate pionieri dall’interno della vita economica e imprenditoriale di uno sviluppo umano integrale.

(Messaggio ai giovani partecipanti ad Assisi
al
iv incontro di The economy of Francesco)

Sabato 7

Maria è
la madre
degli scartati che invita
a vivere
la fratellanza

Celebrare Maria è celebrare la vicinanza e la tenerezza di Dio che incontra il suo popolo, che non ci lascia soli, che ci ha dato una Madre che si prende cura di noi e ci accompagna. È celebrare la vicinanza di Dio, perché lo stile di Dio è vicinanza, compassione e tenerezza.

Così ama Dio e vedendo Maria uno capisce la vicinanza di Dio, la compassione di Dio in una madre, e la tenerezza di Dio.

La Vergine di Montserrat, l’amata “Moreneta”, la Vergine nera, è seduta, con in braccio il Bambino, è la “Mare de Déu”, la Madre di Dio, e nella mano destra ha una sfera che simboleggia l’universo, è la “Regina e Signora di tutto il creato”.

Questa duplice vocazione di Maria a essere madre di Dio e madre nostra aiuta a riflettere sul tema scelto per questo pellegrinaggio: “Pietà popolare, amicizia sociale e confraternità universale”.

La devozione mariana significa molto nelle manifestazioni di pietà del santo popolo fedele di Dio. Quante, quante manifestazioni di affetto filiale, suppliche e azioni di rendimento di grazie!

Quando il popolo di Dio va a visitare sua Madre, si esprime, si esprime in un modo che forse non usa tanto in un altro tipo di preghiera.

La forza
della pietà
popolare

Davanti alla Madre, è come se si risvegliassero i sentimenti più nobili di una persona. E quando Maria ascolta le preghiere, indica Gesù: “Fate quello che vi dirà”.

Indica il camino e parla a suo Figlio affinché ascolti.

La forza evangelizzatrice della pietà popolare crea condizioni favorevoli affinché i vincoli di amicizia e di fratellanza tra i popoli crescano e si rafforzino.

Paolo vi lo aveva capito e cambiò il nome da “religiosità popolare” a “pietà popolare”. Nella sua Evangelii nuntiandi ci sono paragrafi molto chiari su questa grazia che hanno i popoli.

E anche in questo aspetto la devozione mariana ha un posto privilegiato.

Maria è avvocata, però oggigiorno la parola avvocato è troppo funzionale. Meglio dire che è “facilitadora”.

Facilitatrice nei conflitti e nei problemi, come nella mancanza di vino nelle nozze.

Aiuta a “sciogliere i nodi” che possono crearsi in noi e tra noi.

Spiana anche il cammino dell’amicizia tra i popoli, invitandoci a volgere lo sguardo verso l’origine e la meta della nostra esistenza, che è Gesù.

Questo ci incoraggia a seguire il suo esempio, percorrendo i sentieri della pace, della gentilezza, dell’ascolto e del dialogo paziente e fiducioso.

La Vergine di Montserrat, con il mondo nelle sue mani, ci invita a vivere questa fratellanza universale, senza frontiere, senza esclusioni, che dissipa le ombre di un ambiente chiuso.

Lei è attenta non solo a Gesù ma anche al “resto della sua discendenza”.

Vuole partorire un mondo nuovo, dove tutti siamo fratelli, dove ci sia posto per ogni scartato delle città e risplendano la giustizia e la pace.

Per Lei non c’è scarto, è la Madre di quelli che noi scartiamo, perché va lì a cercarli. Non conosce l’atteggiamento di scartare nessuno.

Poiché è Madre sa ascoltare tante richieste, persino quando nascono da un cuore duplice, non coerente, ingiusto, che fa del male. Ascolta, anche il figlio criminale.

(Ai membri della confraternita spagnola
della Madre di Dio di Montserrat)

Mercoledì 11

Il perdono dà dignita e rende liberi

Nel cammino di catechesi sullo zelo apostolico oggi ci lasciamo ispirare dalla testimonianza di Giuseppina Bakhita, santa sudanese.

Purtroppo da mesi il Sudan è lacerato da un terribile conflitto armato di cui oggi si parla poco; preghiamo per il popolo sudanese, perché possa vivere in pace!

Ma la fama di Santa Bakhita ha superato ogni confine e ha raggiunto tutti coloro a cui viene rifiutata identità e dignità.

Nata in Darfur — il martoriato Darfur! — nel 1869, è stata rapita dalla sua famiglia all’età di sette anni e fatta schiava. I suoi rapitori la chiamarono “Bakhita”, che significa “fortunata”.

È passata attraverso otto padroni... Le sofferenze fisiche e morali di cui è stata vittima da piccola l’hanno lasciata senza identità. Ha subito cattiverie e violenze: sul corpo portava più di cento cicatrici.

Spesso la persona ferita ferisce a sua volta; l’oppresso diventa facilmente un oppressore. Invece la vocazione degli oppressi è quella di liberare sé stessi e gli oppressori diventando restauratori di umanità.

Solo nella debolezza degli oppressi si può rivelare la forza dell’amore di Dio che libera entrambi. Santa Bakhita esprime benissimo questa verità.

Un giorno il suo tutore le regala un piccolo crocifisso, e lei che non aveva mai posseduto nulla lo conserva come un tesoro.

Guardandolo sperimenta una liberazione interiore perché si sente compresa e amata e quindi capace di comprendere e amare: infatti dirà: “L’amore di Dio mi ha sempre accompagnato in modo misterioso... Il Signore mi ha voluto tanto bene: bisogna voler bene a tutti... Bisogna compatire!”.

Questa è l’anima di Bakhita. Davvero, com-patire significa sia patire con le vittime di tanta disumanità presente nel mondo, e anche compatire chi commette errori e ingiustizie, non giustificando ma umanizzando.

Questa è la carezza che lei ci insegna: umanizzare.

Quando entriamo nella logica della lotta, della divisione, dei sentimenti cattivi, uno contro l’altro, perdiamo umanità.

Tante volte pensiamo che abbiamo bisogno di essere più umani. Questo è il lavoro che ci insegna Santa Bakhita.

Diventata cristiana, viene trasformata dalle parole di Cristo che meditava quotidianamente. Per questo diceva: “Se Giuda avesse chiesto perdono a Gesù anche lui avrebbe trovato misericordia”.

La vita di Santa Bakhita è diventata una parabola esistenziale del perdono. Il perdono l’ha resa libera.

Il perdono prima ricevuto attraverso l’amore misericordioso di Dio, e poi il perdono dato l’ha resa una donna libera, gioiosa, capace di amare

Bakhita ha potuto vivere il servizio non come una schiavitù, ma come espressione del dono libero di sé: fatta serva volontariamente — è stata venduta come schiava — ha poi scelto liberamente di farsi serva, di portare sulle sue spalle i fardelli degli altri.

Santa Giuseppina con il suo esempio, ci indica la via per essere finalmente liberi dalle nostre schiavitù e paure.

Ci aiuta a smascherare le nostre ipocrisie e i nostri egoismi, a superare risentimenti e conflittualità. E ci incoraggia sempre.

Il perdono non toglie nulla ma aggiunge. Che cosa? dignità.

Il perdono è sorgente di uno zelo che si fa misericordia e chiama a una santità umile e gioiosa, come quella di Santa Bakhita.

(Udienza generale in piazza San Pietro)