Hic sunt leones
Chi lascia il proprio Paese lo fa sempre per una serie di fattori che interagiscono tra loro

Nessuno è migrante per caso

TOPSHOT - Migrants arrive in the harbour of Italian island of Lampedusa, on September 18, 2023. ...
22 settembre 2023

La presenza di Papa Francesco a Marsiglia, in Francia, per la conclusione dei lavori degli “Rencontres Méditerranéennes” (“Incontri del Mediterraneo”) rappresenta l’occasione propizia per riaffermare l’importanza e l’attualità della questione migratoria, con particolare riferimento alla mobilità umana dalle coste africane verso l’Europa. Tutto questo, però, partendo dal presupposto che nessuno è profugo per caso.

A parte i tradizionali scenari di guerra, non basta mai una sola ragione a determinare e spiegare l’abbandono del proprio Paese. Infatti le migrazioni sono sempre originate da una serie di fattori che interagiscono tra loro: persecuzioni politiche, religiose, carestie, esclusione sociale, cambiamenti climatici, violazioni dei diritti umani… Tutte cause che generano uno stato di diffusa insicurezza e precarietà, con particolare riferimento al Vicino oriente e all’Africa subsahariana, da cui proviene il grosso della mobilità umana verso l’Europa.

Il problema di fondo è che spesso la narrazione rispetto a tanta umanità dolente che tenta l’attraversata del mare nostrum (che, a pensarci bene, è anche “loro”) risulta inquadrata nel perimetro di una presunta straordinarietà e imprevedibilità della mobilità umana, limitata comunque nella sua duplice dimensione, temporale e causale. Questa interpretazione porta inevitabilmente all’adozione di misure transitorie, misure tampone destinate a contrastare la sintomatologia migratoria nelle sue molteplici declinazioni, e mai i focolai che determinano l’insorgere dei flussi.

D’altronde, la storia dell’umanità è stata segnata fin dalle sue origini da grandi spostamenti e sebbene sia a dir poco arduo analizzare la condizione di uomini e donne decisi a lasciare i loro luoghi di origine in cerca di sicurezza e di un futuro migliore, sarebbe comunque pretestuoso ignorare la natura di homo migrator che caratterizza la specie umana. Rimane il fatto che l’incomprensione del fenomeno migratorio si procrastina nel tempo sotto le mentite spoglie di chi, nel Vecchio Continente, ostenta la pretesa di voler operare a tutti i costi una sorta di “classificazione” statica e inconfutabile dei migranti: migranti economici, rifugiati climatici, richiedenti asilo...Al contrario, la realtà dei casi portati all’attenzione degli studiosi dimostra che si tratta piuttosto di categorie estremamente permeabili. Le cifre ufficiali, infatti, evidenziano chiaramente che la causa principale della mobilità umana rimane la ricerca di un’attività economica che attribuisca dignità assicurando un futuro migliore.

Ad oggi, infatti, i lavoratori rappresentano circa due terzi della popolazione migrante. Pertanto, come ha evidenziato pertinentemente il professor Vincent Chetail in un suo saggio dal titolo International Migration Law (Oxford, New York, Oxford University Press 2019), partendo proprio dalla debolezza, se non addirittura in alcuni casi, dal fallimento dei sistemi di mobilità creati per i lavoratori stranieri, il principale paradosso del diritto dell’immigrazione, è rappresentato da quella che avviene per motivi economici. Alla prova dei fatti, essa «costituisce la più grande lacuna del diritto internazionale contemporaneo».

Sta di fatto che le restrizioni sulle quote degli ingressi regolari ha acuito a dismisura quelli di segno opposto, gli “irregolari”. Basti pensare ai provvedimenti securitari che, come ha evidenziato in più circostanze il giurista Roberto Angrisani, si traducono nella lotta contro l’immigrazione irregolare, basandosi su una logica circolare: «Il primo passo sono gli accordi con i Paesi terzi per impedire la partenza dei migranti. Poi, le agenzie dell’Unione, in particolare Frontex, assicurano il controllo e l’impenetrabilità delle frontiere marittime e terrestri dell’Slsg (Spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia); una volta superate le frontiere esterne, gli Stati membri dispiegano il loro arsenale amministrativo e penale volto a reprimere i tentativi di ingresso e soggiorno illegale sul loro territorio e, infine, grazie agli accordi di riammissione, ogni sforzo confluisce nel favorire il ritorno degli stranieri nel loro Paese di origine o in Paesi di transito considerati sicuri».

È evidente, pertanto, la necessità di rivedere il quadro normativo, che appare alquanto chiuso e incoerente, tanto da “incentivare” l’immigrazione illegale. Serve pertanto una legislazione, come ha osservato Nino Sergi, presidente onorario di Intersos e policy advisor di Link 2007, «che definisca gli ingressi sulla base di indicatori socio-economici, delle necessità, delle opportunità culturali, scientifiche, professionali, delle intese bilaterali e degli accordi con gli Stati dell’Unione europea, insieme all’inalienabile dovere di garantire la protezione internazionale».

Lungi da ogni retorica, l’immigrazione clandestina si contrasta efficacemente favorendo e rendendo “conveniente” (ai Paesi di immigrazione, agli immigrati e ai Paesi di emigrazione) l’ingresso regolare per lavoro. Nel frattempo, però, rimane aperta la questione di coloro che tuttora sono vittime della tratta, cioè di coloro che, ad esempio, rischiano la vita salpando a bordo di fatiscenti imbarcazioni, con l’intento dichiarato di raggiungere almeno Lampedusa.

A questo proposito, è utile segnalare, in ambito accademico, il contributo offerto da un gruppo di studio, presso la facoltà di Giurisprudenza della Sapienza Università di Roma — coordinato dal professor Enzo Cannizzaro e dal suo collega professor Umberto Triulzi — che ha promosso già da alcuni anni una riflessione per qualificare il traffico di migranti come crimine internazionale. Di questa illuminata iniziativa avevamo già dato conto in passato, ma come indica la saggezza degli antichi, repetita iuvant. L’intento di questi due studiosi è restituire, dal punto di vista giuridico, il ruolo di vittime a chi si trova costretto a rischiare la vita per sfuggire a povertà o guerra.

Prendendo atto della gravità delle condotte di quanti sfruttano tale disperazione, è necessario definire un’efficace risposta sanzionatoria nei confronti dei trafficanti dando, come scrivono gli studiosi, «un adeguato rilievo alle modalità con cui questi trasferimenti avvengono, inserendo, quale elemento indefettibile della previsione, il richiamo all’esposizione a rischio della vita del migrante, così da giustificarne l’inclusione nel catalogo dei crimini contro l’umanità e, conseguentemente, con riguardo alla possibile attivazione delle norme in materia di giurisdizione universale, consentire una risposta sanzionatoria più efficace».

La posta in gioco è alta, non foss’altro perché nel momento in cui il traffico dei migranti fosse qualificato come crimine internazionale, vi sarebbero una serie di conseguenze giuridiche. Sul piano della repressione penale, gli individui coinvolti nella tratta, a diverso titolo, potrebbero rispondere delle loro azioni davanti ai tribunali di qualsiasi Stato, ovvero, a certe condizioni, davanti alla Corte penale internazionale. Sul piano dell’azione della comunità internazionale, tale qualificazione conferirebbe un titolo giuridico a qualsiasi Stato, anche non direttamente interessato dal fenomeno, di chiedere, o forse anche di pretendere, la cooperazione di ogni altro Stato o organizzazione internazionale. Sul piano istituzionale, essa legittimerebbe un coinvolgimento delle istituzioni internazionali, sia sotto il profilo regionale che globale, prima fra tutte le Nazioni Unite. La proposta formulata da questo team di studiosi, finalmente, supera la dialettica tra “rifugiati” e “migranti economici”, spostando l’attenzione e il dibattito politico e sociale sul vero problema: la relazione iniqua e peccaminosa tra i trafficanti (i veri criminali) e le loro vittime sacrificali (i migranti).

Per dirla con le parole del Papa, «dentro di noi e insieme agli altri, non stanchiamoci mai di lottare per la verità e la giustizia». Una cosa è certa: il migrante ancora oggi qui in Europa non è ancora percepito per la società come una possibile risorsa, anche economica, ma non solo. Questo pregiudizio, se non verrà contrastato, rischia d’essere un umanesimo mancato che sarebbe peccaminoso assecondare.

di Giulio Albanese