DONNE CHIESA MONDO

Orrori, fatica, speranza: voci dal Centro Astalli di Roma

Per le rifugiate
parlano gli occhi

 Per le rifugiate parlano gli occhi  DCM-008
02 settembre 2023

Joy non ha neanche vent’anni, è scappata dalla Nigeria e dall’orrore che le parole non riescono a dire ma che le cicatrici raccontano benissimo. Joy sorride. Ogni giorno sorride. Arriva a scuola tutte le mattine si siede e apre il quaderno. Del passato non parla ma sul futuro ha tanto da dire: vuole imparare l’italiano, studiare e aprire un negozio tutto suo. Vuole far venire sua sorella in aereo e non dal mare come è successo a lei. Joy prima di arrivare in Italia non è mai andata a scuola. Non sa scrivere né leggere. Si esprime ancora poco non solo perché non conosce bene l’italiano ma perché le mancano proprio le esperienze che danno significato alle parole. Non ha mai visto una lavagna, non ha mai assaggiato un gelato, non ha mai accarezzato un gatto, non ha mai usato una bicicletta. Joy non ha amici, non ha una famiglia. Viene tutti i giorni a scuola, si siede e fa la sua lezione, poi torna nel centro d’accoglienza dove vive e si esercita a scrivere. Scrive lettere bellissime alla sua insegnante di italiano, che ne ha conosciute tante di donne rifugiate e di Joy dice che ha una luce speciale.

Anna è esausta. Porta sulle spalle un dolore talmente grande che la sfinisce, le toglie i pensieri, il sonno e a volte sembra che la soffochi. È scappata dall’Eritrea dopo che hanno ucciso il marito. Non era sola, aveva con sé le sue due gemelle di un anno. Anna è stata bloccata in Libia, in una cella per un anno intero perché non aveva i soldi per pagare i trafficanti. Una cella tanto piccola da non potersi sdraiare ma abbastanza grande da contenere tutto il male del mondo. Ogni giorno i militari entravano in quella cella. Ogni giorno davanti agli occhi attoniti delle bambine disperate si consumava l’orrore. Ogni giorno Anna non strillava, non piangeva per non farle spaventare, fino a quando le sue figlie sono morte di stenti davanti a suoi occhi e i loro corpi senza vita sono stati accanto a lei, fino a quando è riuscita a uscire, a salire su una barca e arrivare a Lampedusa.

Per un anno è stata ricoverata all’ospedale di Catania tra la vita e la morte. Anna è arrivata incinta in Italia ed è qui che è nata Elvira, che ha il nome della infermiera che si è presa cura della madre.

Elvira è il senso di tutto. Elvira mantiene in vita la madre e viceversa. Anna lavora tante, troppe, ore al giorno in un piccolo albergo. Elvira va a scuola e poi si ritrovano la sera in un appartamento fuori Roma. Da poco hanno ricevuto lo sfratto, nonostante l’affitto arrivi puntualissimo. Quando l’operatrice sociale le chiede se è preoccupata, Anna abbassa lo sguardo e sussurra che anche questa passerà.

E poi c’è Fatima, seduta su una sedia che non vuole mangiare, non vuole parlare: il suo corpo è lì ma la mente viaggia lontana, ritorna a casa sua, in Iraq. «Non posso rispondere alle domande, devo pensare a dove dormire stanotte, non so dove andare, lasciami stare, devo stare da sola». Sta male ma non vuole farsi curare, ma non si fa toccare da nessun medico. Ha il suo dolore e non ha spazio per niente altro, per nessuno. Gli operatori credono che dorma in un treno abbandonato. Difficilmente è lucida e presente a se stessa. Viene tutti i giorni a mensa, si siede, mangia e il corpo sembra trovare un po’ di sollievo, a volte si addormenta, a volte piange in silenzio.

Le donne richiedenti asilo e rifugiate che arrivano in Italia da sole, sono per la gran parte vittime di violenze e abusi nei paesi da cui scappano e durante il viaggio che affrontano. Sono per lo più molto giovani, senza riferimenti, con sentimenti fragili, la solitudine e la paura le fanno innamorare facilmente di chi se ne approfitta o di chi non ce la fa a restare con loro. Avrebbero diritto a sentirsi ancora figlie, ma spesso si trovano ad essere madri loro malgrado.

Il Centro Astalli, la sede italiana del Jesuit Refugee Service, da oltre 40 anni si impegna per garantire alle donne migranti percorsi di accompagnamento psicologico e sanitario, assistenza legale, l’accesso all’istruzione e al mercato del lavoro. Si cerca inoltre di dare voce alla loro esperienza.

Le testimonianze qui riportate sono il frutto di un dialogo tra donne: le rifugiate che condividono la loro esperienza con le operatrici e le volontarie che le ascoltano e le accompagnano per un tratto del loro cammino.

di Donatella Parisi
Responsabile comunicazione Centro Astalli