L’economia africana è sempre più in sofferenza a causa del debito pubblico. È una vecchia storia che si procrastina ciclicamente nel tempo, seguendo la perversa logica del debito che chiama altro debito. E non è la prima volta. Alcuni dei nostri lettori ricorderanno che questo continente attraversò una devastante crisi debitoria — denunciata a squarciagola dal mondo missionario d’allora — dagli anni Ottanta fino a quando, due decenni or sono, grazie al progetto Highly Indebted Poor Countries (Hipc), ad opera del Fondo monetario internazionale (Fmi) e della Banca mondiale (Bm), una trentina di Paesi a basso reddito della fascia subsahariana poterono ottenere una riduzione del debito (circa cento miliardi di dollari). A questo programma se ne aggiunse un altro, la cosiddetta Multilateral Debt Relief Initiative (Mdri). Queste iniziative suscitarono grande euforia perché consentirono a molti governi africani di riprendere fiato, accedendo a prestiti insperati.
Purtroppo si verificò ben presto la tendenza, da parte dei governi africani, di sostituire il debito multilaterale a basso costo e lungo termine con un debito verso creditori privati — assicurazioni, banche, fondi di investimento, fondi di private equity — molto più oneroso e a breve termine. Ecco che allora il debito di cui sopra è stato letteralmente finanziarizzato, con il risultato che il pagamento degli interessi è stato inscindibilmente legato alle attività speculative sui mercati internazionali. Questo ha comportato costi di servizio del debito e rischi di rifinanziamento più elevati, con il risultato che la cifra assoluta del debito ha raggiunto i 1.140 miliardi di dollari. Si tratta di un valore assoluto certamente inferiore a quello delle economie avanzate. È però una cifra debitoria elevata se raffrontata al valore complessivo del Pil africano che è di circa 3 trilioni di dollari. Per avere un confronto, basti pensare che quello dell’Unione europea (Ue) è di 16,5 trilioni.
È evidente che di fronte a questo scenario occorre mantenere l’attenzione internazionale sulla necessità di trovare una soluzione al problema del debito africano, vista la fragilità in cui versano varie economie nazionali nel contesto odierno. Infatti, l’impennata dei tassi d’interesse a livello globale rende sempre più difficile la ricerca di fonti di finanziamento alternative per molti Paesi africani che stanno testando i limiti della capacità dei propri mercati nazionali per ovviare alla mancanza di fondi internazionali. Qui le responsabilità ricadono sia sulle classi dirigenti locali, ma anche sulle stesse istituzioni finanziarie internazionali, le quali pretendono che le concessioni per lo sfruttamento delle materie prime, unitamente alle privatizzazioni (soprattutto il land grabbing, vale a dire l’accaparramento dei terreni da parte delle aziende straniere) vengano attuate «senza se e senza ma», per arginare il debito. Si tratta di un affare colossale essendo, in genere, le monete locali fortemente deprezzate.
La questione di fondo è che in questo scenario a dettare le regole del gioco è la finanza speculativa che considera inaffidabile un Paese pesantemente indebitato, e di conseguenza lo emargina di fatto dai mercati finanziari internazionali, costringendolo a pagare più caro il denaro: almeno quattro volte di più di quanto pagano i Paesi economicamente avanzati. Questo si traduce per i Paesi africani non solo nell’assenza di un welfare degno di questo nome, ma anche di infrastrutture (strade, scuole, ospedali), necessarie sia alla lotta contro la povertà, sia alla creazione di condizioni atte ad avviare lo sviluppo, il quale, a sua volta, garantirebbe la restituzione del prestito ricevuto. Se da una parte è vero che la crisi è mondiale — lo scorso giugno si calcolava che il debito globale, pubblico e privato, fosse pari a 300.000 miliardi di dollari, cioè il 350 per cento del Pil mondiale; nel 1999 era di 200.000 miliardi —, dall’altra occorre tenere presente che sono i Paesi africani quelli maggiormente sotto pressione.
Come ha rilevato l’economista Paolo Raimondi: «Essi sono direttamente influenzati dalle politiche monetarie della Federal Reserve. Alti tassi d’interesse, un dollaro forte, la fuga di capitali, la svalutazione delle monete locali e l’inflazione stanno rendendo molto difficile la gestione del loro debito. “The Economist” ha identificato ben 53 Paesi vulnerabili, molti dei quali africani, che sono crollati sotto il peso del debito o sono a rischio di farlo. Non è un caso se la Bm sostiene che il 60 per cento dei Paesi poveri è diventato debitore ad alto rischio». A questo proposito è bene rammentare che in linea di principio i debiti non sarebbero un problema se servissero a sostenere gli investimenti per lo sviluppo industriale e tecnologico. Il problema viene palesemente alla ribalta quando sono prevalentemente speculativi e sganciati dall’economia reale; in questi casi crescono in maniera sproporzionata, penalizzando i ceti meno abbienti. La vera sfida, guardando al futuro, riguarda la messa a punto di strumenti atti a contenere le varie forme di speculazione. Da questo punto di vista siamo ancora in alto mare perché i grandi attori internazionali si limitano o a ridurre il valore attuale netto del debito tramite l’estensione della data di maturazione delle obbligazioni, sospendendo momentaneamente il pagamento d’interessi, o attraverso il cosiddetto haircut, che consiste nel taglio del valore nominale del debito.
Questi provvedimenti servono, alla prova dei fatti, a dilazionare il problema senza affrontarlo in modo sistemico. Sarebbe auspicabile, pertanto, che fosse preso in considerazione l’Oeconomicae et pecuniariae quaestiones, vale a dire il documento della Santa Sede sul discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario pubblicato il 17 maggio del 2018 dall’allora Congregazione per la Dottrina della fede e dal Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale. Nel testo si legge tra l’altro che «si sente la necessità di intraprendere una riflessione etica circa taluni aspetti dell’intermediazione finanziaria, il cui funzionamento, quando è stato slegato da adeguati fondamenti antropologici e morali, non solo ha prodotto palesi abusi e ingiustizie, ma si è anche rivelato capace di creare crisi sistemiche e di portata mondiale».
Il documento non si limita a fare delle mere esortazioni morali, ma affronta importanti questioni come la funzione sociale del credito contrapposta ai comportamenti usurari; esso inoltre analizza la pericolosità di certi strumenti economico-finanziari che possono creare rischi sistemici, «intossicando» i mercati. In particolare i derivati, veri e propri «ordigni a orologeria», soprattutto se sono negoziati sui mercati non regolamentati, i così detti Over the counter (Otc), più esposti all’azzardo e alle frodi. Da notare che nel documento della Santa Sede viene anche messa in evidenza la pericolosità dei Credit default swaps (Cds), quei derivati che consentono di scommettere sul rischio di fallimento di una terza parte. «Il mercato dei Cds, alla vigilia della crisi finanziaria del 2007 — si ricorda — era così imponente da rappresentare all’incirca l’equivalente dell’intero Pil mondiale». Le proposte formulate nel documento della Santa Sede sono molto concrete e vanno dalla certificazione da parte dell’autorità pubblica di tutti i prodotti che provengono dall’innovazione finanziaria, alla regolamentazione del sistema finanziario; dal coordinamento sovranazionale fra le diverse architetture dei sistemi finanziari locali per arginare la deregulation, all’introduzione di una clausola generale che dichiari illegittimi, con conseguente responsabilizzazione patrimoniale di tutti i soggetti a cui questi sono imputabili, quegli atti il cui fine sia l’aggiramento delle norme vigenti; dalle specifiche misure contro il «sistema bancario ombra» al contrasto alla finanza offshore che offre grandi possibilità di evasione e di elusione fiscale. Lungi da ogni retorica, questa è l’unica strada da perseguire se s’intende davvero sostenere l’economia mondiale e in particolare quella africana.
di Giulio Albanese