
Una barca in mezzo alle acque, l’oscurità della notte, l’assenza del maestro, la paura, la tempesta, l’angoscia della morte imminente. La liturgia della prossima domenica ci propone un passo evangelico dai caratteri emblematici: una vetta scritturistica che, nel corso della vita, s’imprime nella memoria come un sigillo sulla carne. Ci troviamo al xiv capitolo del racconto matteano e il narratore, nel corso del racconto, ci rivela dettagli meritevoli di attenzione. Dopo la moltiplicazione dei pani, il rabbi Yeshua “ordina” ai suoi di salire sull’imbarcazione e precederlo: da solo avrebbe congedato le folle. Dopo il congedo, il maestro non raggiunge subito i suoi: piuttosto si ritira in totale solitudine, sale su una montagna a pregare (Matteo, 14, 23). Al versetto 24 siamo messi a conoscenza del fatto che l’imbarcazione dei discepoli è messa a dura prova dalle onde: il vento le è infatti contrario. Un lettore attento ai fatti fin qui narrati dal vangelo di Matteo si attenderebbe un intervento sollecito da parte del rabbi di Galilea in favore dei suoi discepoli: giacché quel rabbi è lo stesso che in precedenza aveva sfamato una folla di cinquemila uomini (Matteo, 14, 13-21), guarito un uomo dalla mano inaridita il giorno di sabato (Matteo, 12, 9-14), ridato la vista a due ciechi (Matteo, 8, 27-31) sanato un lebbroso (Matteo, 8, 1-4), liberato un indemoniato (Matteo, 8, 32-34). E invece Yeshua “tarda”: la costruzione è quella di una scena dai contorni nitidi quanto drammatici che pone l’accento sulle “contraddizioni” delle scelte del maestro Gesù. L’autore del vangelo matteano pare, dunque, suggerire una messa alla prova dei discepoli direttamente voluta dal maestro, quasi “pensata”: egli “ordina” loro di imbarcarsi senza di lui; non li raggiunge subito; “attende” in preghiera il trascorrere di larga parte della notte lasciando i suoi in balia del mare in tempesta e dei venti. Yeshua decide di giungere solo “sul finire della notte” letteralmente: al quarto turno di veglia della notte (Matteo, 14, 25). Una volta giunto (camminando sulle acque!) rassicura i suoi — lecitamente sconvolti: «Fatevi coraggio! Sono io, non abbiate paura!» (Matteo, 14, 27). Asseconda poi il povero Pietro, il quale chiede una prova d’identità che va presto oltre la sua fede: «Subito Gesù, stesa la mano, lo afferrò e gli disse: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”».
Appena maestro e discepolo salgono sulla barca la tempesta si placa: Yeshua è riconosciuto da tutti come il Figlio di Dio. La buona notizia di questa scena evangelica è quella di un avvento salvifico: la nostra poca fede “non impedisce” a Dio di salvarci dalle acque in cui anneghiamo. Quest’avvento però è un “avvento tardivo”: Dio giunge al quarto turno di veglia, la salvezza sopravviene alla fine della notte. Sovente non c’è dato di percepire la presenza e l’intervento di Dio nel “qui e ora” della nostra prova, del nostro dolore, della più annichilente mancanza di senso: ma dietro l’ombra dell’assenza Dio sta già preparando una venuta, l’irruzione della sua presenza, di una salvezza insperata. Nell’attesa oscura nella quale ci sentiamo soli e perduti c’è data la possibilità di urlare con timore e lecito sgomento, di urlare con sempre maggiore vigore a Dio: “Vieni dunque a salvare! Vieni dunque!”. Al quarto turno di veglia Egli verrà. (Deborah Sutera)
di Deborah Sutera