Un nuovo appello «davanti all’altare» affinché «ci si adoperi con ogni mezzo per il ritrovamento» di padre Paolo Dall’Oglio, e degli altri scomparsi in Siria, «fosse anche solo per compiere quel gesto di pietà che non si può negare a nessuno, ovvero quello di piangere, dando una sepoltura dignitosa al loro corpo». Lo ha lanciato il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, durante la messa presieduta nella chiesa romana di Sant’Ignazio di Loyola, sabato sera, 29 luglio, a dieci anni dal rapimento del sacerdote gesuita.
Alla celebrazione erano presenti, tra gli altri, i monsignori Julian Yacoub Mourad, arcivescovo di Homs dei Siri, e Rami Flaviano Al-Kabalan, procuratore presso la Sede Apostolica del Patriarcato di Antiochia dei Siri, i membri della comunità monastica di Deir Mar Musa, alcuni gesuiti, autorità civili, familiari e amici di padre Paolo. All’omelia il porporato ha ricordato che in questi anni sono stati fatti tanti appelli, soprattutto da Papa Francesco, ma dal 29 luglio 2013 non si hanno più notizie di Dall’Oglio. E ciò nonostante le ricerche e i sospiri per la sua sorte ma anche per quella di ben 120.000 persone, secondo una stima delle Nazione Unite, scomparse in questi anni di guerra in terra siriana. Tra di esse, gli arcivescovi Boulos Yazigi, metropolita greco-ortodosso, e Youhanna Ibrahim, metropolita siro-ortodosso, dei quali non si hanno notizie dal 22 aprile dello stesso anno, e che padre Paolo stava appunto cercando di ritrovare. Nel contempo Parolin ha anche accennato alla scomparsa di due sacerdoti avvenuta il 9 febbraio precedente: Michael Kayal, armeno-cattolico, e Issab Mahfoud, greco-ortodosso.
In proposito il segretario di Stato ha spiegato che la fede «non proviene da una vaga adesione intellettuale alla figura storica di Gesù, ma dall’incontro personale con Lui». Tale incontro è «così bello e forte che diventa sorgente di amore incondizionato verso tutti i fratelli». Di ciò la terra di Damasco «è stata testimone fin dai primi tempi», quando Paolo di Tarso cambiò radicalmente la propria vita grazie all’incontro con Colui che egli perseguitava, il Signore Gesù». Da lì iniziò un cammino di santità che lo portò fino a Roma, dove trovò il martirio.
La fede, ha evidenziato Parolin, è per coloro che «sanno essere “piccoli”, che non considerano sufficiente avere la sapienza, ma accettano di sentirsi “in necessità”». Infatti i “piccoli”, come i bimbi, «sono coloro che hanno bisogno di tutto e considerano il papà come l’unico che può dar loro sicurezza e amore».
Per poter esser in dialogo sincero «con le persone di altre fedi, come i nostri fratelli musulmani, non dobbiamo mai nascondere la nostra identità di cristiani, ma mostrarla nella sua dimensione più veritiera». Infatti, in ogni incontro è necessario «parlare il linguaggio del Regno dei Cieli che è quello del rispetto, della stima del fratello e di quanto gli sta a cuore, di tutto ciò che è positivo e buono in lui». Solo in questo modo «la logica della prepotenza, della superbia, delle armi, della discriminazione e della guerra sarà soppiantata» da quella «del cielo, ovvero della carità, della compassione», avendo «gli stessi sentimenti di Cristo» fattosi servo umile e obbediente. In tal modo «l’incontro con l’altro può divenire amicizia, e “nell’amicizia siamo sacramento gli uni per gli altri dell’amore di Dio”, come padre Paolo ha scritto nelle sue Lettere e ha cercato di vivere» nella propria esistenza.
Sappiamo, ha aggiunto il cardinale, che «non è una cosa facile» come «testimoniano i nostri fratelli cristiani che vivono nei Paesi del Medio Oriente». Per la Santa Sede infatti «la presenza cristiana in Medio Oriente non è semplicemente da “tollerare”». Al contrario, i cristiani in Siria, «come in Palestina, in Libano, in Israele, in Iraq e in ogni altra nazione, sono cittadini ai quali devono essere garantite tutte le libertà». Il concetto di cittadinanza, ha chiarito, «si basa sull’eguaglianza dei diritti e dei doveri “sotto la cui ombra tutti godono della giustizia”, superando il concetto di minoranza “che porta con sé i semi del sentirsi isolati e dell’inferiorità” (Fratelli tutti, 131)». Le comunità cristiane in Medio Oriente «sono parte di quei popoli a pieno titolo, e hanno sempre contribuito al loro sviluppo culturale, economico e politico, con dedizione e competenza».
Considerando la vicenda di padre Dall’Oglio, il porporato si è chiesto cosa lo spinse a inoltrarsi nel deserto e costruire ponti di dialogo e se ne sia valsa la pena. Ogni missionario del Vangelo, ha osservato, come padre Paolo «è animato dalla fede in Cristo e dall’amore per i fratelli».
Nato a Roma nel 1954 ed entrato nella Compagnia di Gesù nel 1975, Dall’Oglio è stato ordinato presbitero nella Chiesa siro-cattolica. A partire dalla ricostruzione del monastero di Deir Mar Musa al Habashi (monastero di San Mosè l’Abissino), iniziò una nuova esperienza monastica, aperta all’ospitalità, all’ecumenismo e al dialogo con l’islam. E in quel contesto, «ha cercato di impegnarsi a favore della pace in Siria, soprattutto quando nel 2011 iniziarono i tumulti popolari che furono duramente repressi, creando quelle condizioni che hanno portato alla guerra e alla devastazione».
Obbligato a lasciare il Paese nel giugno 2012, nel luglio 2013 riuscì a raggiungere la città di Raqqa, nel nord siriano controllato dai movimenti di opposizione al governo di Damasco. Ma dal 29 luglio di quell’anno non si hanno più sue notizie. Il segretario di Stato ha perciò invitato a pregare per padre Dall’Oglio e per tutte le persone scomparse, per le loro famiglie, ma anche per tutti i siriani, sia quelli che vivono in patria sia quelli che si sono rifugiati in altre terre.