(s)Punti di vista
Non basta l’algoritmo,
Disinformazione, fake news e uso non controllato dell’intelligenza artificiale costituiscono certamente un pericolo. Ma aprono enormi spazi per chi voglia mettere in campo competenze e professionalità «di cui fidarsi», che aiutino gli italiani «anche ad avere maggiore consapevolezza di come riconoscere fonti e notizie di qualità». Una iniezione di fiducia per la categoria di giornalisti e comunicatori — talvolta a ragione, spesso a torto — un po’ bistrattata. Ne è convinto il professor Giuseppe De Rita, che stamattina — assieme a Maurizio Gasparri, vicepresidente del Senato della Repubblica italiana; Alberto Barachini, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’Informazione e all’Editoria; Roberto Marti, presidente della Commissione cultura e patrimonio culturale, istruzione pubblica del Senato; Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero per la comunicazione della Santa Sede; Ivano Gabrielli, direttore della Polizia postale; Ruben Razzante, docente di diritto dell’Informazione all’Università Cattolica di Milano; Domenico Colotta, founder di Ital Communications; Roberto Zarriello, segretario generale di Assocomunicatori; e Anna Italia, ricercatrice del Censis — ha presentato a Palazzo Giustiniani a Roma il terzo rapporto Ital Communications-Censis, intitolato Disinformazione e fake news in Italia. Il sistema dell’informazione alla prova dell’Intelligenza Artificiale.
Tanti gli spunti utili emersi dal rapporto, a cominciare dalla sottolineatura di un bisogno crescente di informazione, in particolare dal mondo dell’online. Risulta che circa 47 milioni di italiani, il 93,3 per cento del totale, si informa abitualmente su almeno una delle fonti disponibili, l’83,5 per cento sul web e il 74,1 per cento sui media tradizionali. D’altro canto, appare non confortante il dato di coloro che hanno rinunciato ad avere un’informazione puntale su quanto accade nell’attualità: circa 3 milioni e 300mila (il 6,7 per cento del totale); mentre 700.000 italiani non si informano affatto.
Tra coloro che leggono, il 64,3 per cento utilizza un mix di fonti informative, tradizionali e online, il 9,9 per cento si affida solo ai media tradizionali e il 19,2 per cento (circa 10 milioni di italiani in valore assoluto) alle fonti online. In questo contesto, aumentano paure e timori di non essere in grado di riconoscere disinformazione e fake news. Il 76,5 per cento degli italiani ritiene che le fake news siano sempre più sofisticate e difficili da scoprire, il 20,2 crede di non avere le competenze per riconoscerle e il 61,1 di averle solo in parte. Inoltre, il 75,1 per ento della popolazione ritiene che con l’upgrading tecnologico verso l’intelligenza artificiale sarà sempre più difficile controllare la qualità dell’informazione. E tuttavia, preoccupante è il dato dei “negazionisti”, quello che Ruffini ha chiamato “il partito della post-verità”: addirittura il 29,7 per cento della popolazione non crede all’esistenza delle bufale e pensa che non si debba parlare di fake news, ma di notizie vere che vengono deliberatamente censurate dai palinsesti ufficiali che poi le fanno passare come false. Tra i negazionisti, in particolare, i più anziani (35,8 per cento tra gli over sessantaquattrenni) e chi ha un basso livello di scolarizzazione (il 40,4 per cento di chi ha al massimo la licenza media). Esempio di «molta informazione e tanta confusione», dice il rapporto, è il caso del cambiamento climatico: il 34,7 per cento degli italiani è convinto che ci sia un allarmismo eccessivo e il 25,5 per cento che l’alluvione di quest’anno sia la risposta più efficace a chi sostiene che si sta progressivamente andando verso la desertificazione. I negazionisti, convinti che il cambiamento climatico non esista, sono il 16,2 per cento.
«Tra coloro che frequentano il web, soprattutto i più giovani», ha detto ancora nel suo intervento Ruffini «mi ha molto stupito che il 69,1 per cento utilizzi la messaggistica istantanea e addirittura il 76,6 i social media per informarsi». Vuol dire che «il tema non riguarda più tanto o solo il rapporto fra vero e falso, ma la selezione delle fonti e delle notizie, affidata ad algoritmi. E gli algoritmi tendono a ridefinire ciò che è rilevante come ciò che risponde ad un interesse individuale: ti mostro ciò che vuoi vedere, ti nascondo ciò che non vuoi vedere. Ma dove è il confine fra ciò che voglio e ciò che penso di volere, orientato da altri fini rispetto a quelli di una informazione trasparente? Dove è lo spazio della mia libertà? Sono davvero io che voglio?», si è chiesto.
«La confusione» che, ha detto ancora, sembra «la caratteristica del nostro tempo», si supera con un’alleanza stabile tra tutti gli stakeholders che hanno interesse a una informazione più attendibile (lo pensa l’89,5 per cento del totale). L’efficacia delle fake news — ha ricordato inoltre, citando Papa Francesco nel suo Messaggio per la Comunicazioni sociali del 2018 — «è dovuta in primo luogo alla loro natura mimetica, cioè alla capacità di apparire plausibili. Queste notizie, false ma verosimili, sono capziose, nel senso che sono abili a catturare l’attenzione dei destinatari, facendo leva su stereotipi e pregiudizi diffusi all’interno di un tessuto sociale, sfruttando emozioni facili e immediate da suscitare, quali l’ansia, il disprezzo, la rabbia e la frustrazione. La loro diffusione può contare su un uso manipolatorio dei social network e delle logiche che ne garantiscono il funzionamento».
Così, la sfiducia rischia di diventare la regola per la convivenza sociale. Tuttavia, ha concluso Ruffini, la tecnologia «è figlia del genio inventivo dell’uomo», per questo «non possiamo cederle il passo su ciò che più ci definisce: il libero arbitrio, la capacità di provare emozioni, di cambiare idea. Dobbiamo piuttosto allargare lo sguardo, pensare in grande. Siamo noi che dobbiamo guidare l’intelligenza artificiale; con l’intelligenza umana e con il cuore umano, che rende la nostra intelligenza unica. Sta a noi negoziare gli algoritmi», e «tessere con l’etica della libertà e della responsabilità, della trasparenza e della convivenza gli algoritmi della macchina e i pensieri dell’uomo. E falsificare l’idea fatalista, secondo il quale non serve a nulla lottare contro un destino che sarebbe già scritto».
di Roberto Paglialonga