«D’un quadro me sovieno: / un scuro de taverna, / ‘n omo a sede, ‘l baleno / fermo de ‘na ma’ eterna // che chiama quela vita / fori dal suo binario»: su una tela è raffigurata una mano «eterna» che, sbucando nella penombra di una bettola, chiama qualcuno. Questi versi videro la luce in una raccolta di liriche pubblicata giusto cinquant’anni fa (E per un frutto piace tutto un orto, L’Astrogallo, 1973). L’autore, Franco Scataglini (1930-1994), la cui opera omnia, curata da Paolo Canettieri, è stata di recente pubblicata per i tipi di Quodlibet (nella collana Ardilut, diretta da Giorgio Agamben), esordiva in quelle pagine come poeta vernacolare, costruendo una personale loquela “agontana”, di facile comprensione — «una variante preziosa e sperimentale» della parlata anconetana, secondo la definizione di Pier Vincenzo Mengaldo —, e innestandosi nella tradizione poetica italiana del xiii e xiv secolo.
Il passo citato è tratto da un componimento intitolato El senso del mio testo, nel quale nella memoria del solitario io lirico, giunto alla fine di una consueta e grigia giornata di lavoro — «Resto solo in uficio: / la fronte contro i vetri» — affiora la scena del capolavoro di Caravaggio La vocazione di san Matteo: «‘Na facia sbigotita / fa quel’omo ordinario: // fissa la ma’ fatale / come sperso ‘nte’l niente, / ma ai ochi già ie sale / la passione splendente». I settenari di Scataglini, evocando la raffigurazione pittorica della chiamata del pubblicano da parte di Gesù, adombrano, nell’uomo che se ne ricorda, la dolorosa «assenza de quel gesto» dalla propria vita, un gesto desiderato come la vertigine di una scommessa d’eternità che giunga a fare compagnia nell’usuale scorrere del tempo: «L’imperativo muto / de quela ma’ ‘nte’l sguardo / quanto io avrìa voluto / trova’, come pe’ azardo. // L’assenza de quel gesto / da sempre me tortura. / El senso de ‘l mio testo / è ‘na cancelatura».
«Per me vita e scritura / ene compagni, el sai», si legge in un altro componimento di Scataglini, «un poeta che ha interrogato a lungo la condizione umana», ha detto il critico Massimo Raffaeli. La sua poesia, osservò Carlo Betocchi, «nasce con tutta la sua carne e con tutti gli echi della vita che l’hanno investita, dilettata, tormentata... Nasce dal peso, natura, odore, colore, ventura e disgrazia degli oggetti che ha incontrato nel corso della sua vita». E dall’attesa di «quel gesto», di quella «ma’ eterna / che chiama» che l’uomo non sa scrivere nel proprio cuore.
di Paolo Mattei