Hic sunt leones
Le prospettive di un continente che vanno oltre l’industria dei viaggi

Luci e ombre
del turismo africano

 Luci e ombre  del turismo africano  QUO-121
26 maggio 2023

Idealmente, il viaggio dovrebbe manifestarsi, per chiunque intendesse intraprenderlo, come un’esperienza singolare e per molti versi insostituibile. In effetti, è il momento in cui l’essere umano è costretto a stabilire una relazione fra ciò che è noto e il suo esatto contrario, l’ignoto. Nella dialettica tra questi due estremi, può avvenire che il soggetto itinerante acquisisca una nuova percezione di sé e della realtà circostante, ivi inclusa anche la propria civiltà e cultura. Ne consegue, nella migliore delle ipotesi, un nuovo modo di guardare al mondo e di concepirsi come parte di esso.

Chi scrive ebbe proprio questa multiforme percezione. Ricordo ancora, come fosse oggi, il mio primo viaggio nel cuore del continente africano. Biglietto di sola andata per Entebbe: destinazione finale Kampala, in Uganda, dove sarei rimasto ininterrottamente per quattro anni. L’aereo decollò da Fiumicino con cinque ore di ritardo, alle 4.40 del mattino. A guardarla dal finestrino di quel vecchio Boeing 707 della Uganda Airlines, l’Africa sembrava essere un altro pianeta. Era il 27 aprile del 1982 e mi trovavo a bordo di un vecchio rottame, di seconda o terza mano: vibrava dappertutto, mentre la tappezzeria interna — sbiadita e fatiscente — si gonfiava a causa di misteriosi spifferi. Dopo aver lungamente rullato sulla pista, singhiozzando e sbuffando, quella sorta di locomotiva alata si staccò miracolosamente da terra. Una volta sul territorio africano, guardando dal minuscolo finestrino, lo spettacolo era così avvincente che spazzò via ogni paura: prima la costa verde del Mediterraneo, poi sabbia e rocce e gradualmente le prime savane, poi il Nilo e il grande Lago Vittoria. Il cielo color cobalto si fondeva con l’orizzonte dando la sensazione d’essere davvero ai confini del mondo. Mentre tentavo di sonnecchiare, il volo durò 7 lunghe ore, pensavo tra me e me che «quel coso roboante» fosse una bara volante. E neanche a farlo apposta, qualche anno dopo, il 17 ottobre del 1988, proprio quel Boeing si schiantò al suolo nei pressi dello scalo aeroportuale Leonardo da Vinci. Persero la vita sette membri dell’equipaggio e 26 passeggeri su 45 a bordo.

Sta di fatto che per quanto quell’esperienza sia stata avvincente in tutte le sue declinazioni — basti pensare che a Kampala le comunicazioni telefoniche in quegli anni erano costosissime e rarissime, essendo le centraline telefoniche (analogiche) malmesse a causa della guerra civile — sono trascorsi quarant’anni e non è poca cosa. Bisogna infatti ammettere che proprio il valore cognitivo ed esperienziale del viaggio in terra africana ha subito in molti Paesi una profonda mutazione, o quantomeno si è evoluto in una diversa direzione. Tranne alcune lodevoli eccezioni dovute all’intraprendenza di alcuni tour operator,  è più il momento dell’esplorazione avventurosa alla scoperta dell’ignoto. Come rileva Cristiana Furlan, in un’interessante tesi discussa alla McGill University di Montreal, «oggi, informazioni e immagini di luoghi e popolazioni anche remoti sono facilmente reperibili e il viaggiatore può arrivare a destinazione sapendo già parzialmente ciò che lo aspetta. Durante il viaggio, quindi, al soggetto non si rivelano più l’esotico altro e altrove, e i rapporti si sviluppano secondo canoni che sono diversi rispetto a quelli del passato. Se sia ancora possibile attribuire al viaggio un valore esperienziale-cognitivo che sia formante per il soggetto è uno dei problemi principali di questo studio».

L’Africa, com’è noto, vanta una ricca varietà di attrazioni per ogni genere di visitatore straniero: dai siti archeologici ai monumenti storici, dai paesaggi mozzafiato come le Victoria Falls al confine tra lo Zambia e lo Zimbabwe ai deserti del Sahara, del Namib e del Kalahari. E inoltre cosa dire delle coste suggestive, o delle montagne, pianure, foreste pluviali tropicali ed ecosistemi incontaminati che ospitano piante rarissime e una fauna senza paragoni al mondo. Anche se poi l’Africa è molto, ma molto di più di quello che l’industria del turismo propone a qualsivoglia viaggiatore che fatica a cogliere la complessità di un continente anni luce distante dall’immaginario occidentale. Ecco che allora da una parte emerge il mysterium fascinans, quello che solo chi ha assistito a un tramonto nella savana può comprendere, mentre dall’altra c’è quello tremendum segnato in certi Paesi da guerre, ingiustizie e sopraffazioni. Una cosa però è certa: per quanto l’immagine dell’Africa possa apparire grigia, indistinta e agglutinata per qualsivoglia osservatore collocato al di fuori dei confini geografici del continente, il turismo africano rappresenta una grande risorsa per i governi, sebbene sia sottoposto in alcuni casi a una eccessiva standardizzazione dei modelli imposta dal mercato. Durante gli ultimi due decenni, prima della penosa pandemia covid-19, il continente africano aveva registrato una crescita robusta. Basti pensare che tra il 1995 e il 2014 vennero censiti arrivi di turisti da ogni angolo del mondo con aumenti annuali del 6 per cento e ricavi di tale settore del 9 per cento.

Dal 1995 al 1998 i turisti internazionali in Africa risultarono essere 24 milioni, tra il 2011 e il 2014 erano diventati 56 milioni. Nel 2018 si raggiunsero i sessantaquattro milioni di turisti che avevano visitato un Paese africano. Alla vigilia del flagello causato dal coronavirus, nel 2019, il comparto del turismo nel continente valeva 80 miliardi di dollari e garantiva 10 milioni e mezzo di posti di lavoro. Non v’è dubbio che il settore turistico è stato il più penalizzato a causa delle restrizioni sugli spostamenti delle persone e il conseguente bando del turismo a livello planetario. Gravi sono anche state le ripercussioni sull’indotto, particolarmente il settore della conservazione faunistica e dell’ambiente, per non parlare di altri settori produttivi: dalla costruzione di nuovi alberghi, all’acquisto di arredi delle strutture ricettive; dalle forniture di materie prime, ai servizi di accoglienza. Fortunatamente, i recenti dati pubblicati dall’Organizzazione mondiale del turismo (Unwto) fanno ben sperare. La destinazione più performante è stata l’Egitto, con i suoi 11,7 milioni di turisti che hanno visitato la terra dei faraoni nel 2022, contro gli 8 milioni del 2021 e i soli 3,7 milioni del 2020; 13,10 milioni di turisti avevano visitato l’Egitto nel 2019, secondo la stessa fonte che cita l’Autorità egiziana incaricata del turismo. In seconda posizione il Marocco, con 10,9 milioni di turisti che hanno visitato il Paese nel 2022. Rispetto al 2019, questa cifra costituisce un tasso di recupero di circa l’85 per cento. Il Sudafrica si è attestato al terzo posto in termini di arrivi nel 2022, con 7,12 milioni di turisti. La Tunisia si è classificata al quarto posto nel 2022, con un tasso di ripresa che sfiora il 70 per cento rispetto a quello del 2019, anno di riferimento per il settore turistico.

Le previsioni, guardando al futuro, sono ottimistiche anche se sono ancora molti i nodi da sciogliere. Ad esempio il fatto che l’Africa attiri grossi investimenti internazionali nel settore alberghiero: le maggiori catene internazionali coi loro brand globali — Marriott, Accor, Hilton, Ibis Style… — hanno sì accresciuto la capacità recettiva, ma spesso a svantaggio degli imprenditori locali. Da questo punto di vista si avverte l’esigenza di promuovere sempre più un turismo responsabile, privilegiando i valori e gli interessi delle comunità locali. Certamente un fenomeno che andrebbe decisamente contrastato è quello del leakage, cioè la perdita di guadagno dei territori visitati ai quali spesso, con il turismo tradizionale, non restano che le briciole, cioè neanche il 20 per cento degli investimenti, perché oltre l’80 per cento viene assorbito dai ricavi degli agenti di viaggio, dalle compagnie aeree e dalle agenzie assicurative. Dulcis in fundo, come ebbe a stigmatizzare un anziano missionario, che per anni prestò servizio pastorale in una delle tante bidonville o slum che dir si voglia, di Nairobi, capitale del Kenya: «In questo Paese — sono sue testuali parole — la povera gente è costretta a vivere nelle gabbie delle baraccopoli che costellano la capitale, in condizioni disumane, mentre nei grandi parchi, gli animali vivono in una condizione di permanente libertà e vengono assistiti e protetti dai ranger come signori». Una delle tante contraddizioni africane: inferno e paradiso.

di Giulio Albanese