Testimonianze
Il corpo dell’attore

Come una corda
pronta a risuonare

 Come una corda  pronta a risuonare  QUO-118
23 maggio 2023

La mia esperienza come attore muove i primi passi dall’incontro avuto in Accademia con un Maestro, Orazio Costa, che già nei primi anni del ‘900 aveva intuito come il corpo, dell’attore e per l’attore, fosse strumento di comprensione e trasformazione della realtà. L’intuizione centrale di questi studi è che il corpo, meno piegato dalla nostra cultura occidentale alle censure o al controllo della razionalità, sia uno strumento di comprensione quasi vergine degli eventi naturali al centro dei quali si muovono solitamente i personaggi delle storie che raccontiamo.

Come di fronte alle prime esperienze sensoriali del bambino, un corpo ben allenato, può diventare fonte di conoscenza quasi primaria per l’attore del mondo che lo circonda, una corda pronta a risuonare anche se solo sfiorata da uno stimolo. E può, il corpo, da sempre, perfino spaventare per queste possibilità.

La questione della carne quindi porta con sé la possibilità di riflessioni stimolanti e temo, infinite. Non posso che rispondere da attore e da contemporaneo. La carne oggi, dunque, in questo periodo ricco di contraddizioni in cui il corpo umano viene esaltato in maniera ossessiva e al tempo stesso svilito e quasi cancellato dalla virtualità. Onestamente non credo che si stia assistendo in questo momento ad un fenomeno nuovo, solo lo si sta declinando secondo il linguaggio e gli strumenti della nostra epoca, ci piacciano o meno. Tutti i periodi storici che ci hanno preceduto hanno proiettato sul corpo dell’uomo e ancor più della donna, gli ideali di pensiero, di estetica, di morale, di moda che le varie epoche individuavano come rappresentativi di sé stesse. Il corpo è stato nella rappresentazione artistica di volta in volta esaltato, negato, trasfigurato, dilaniato da chi lo ha raffigurato o da chi lo ha messo in scena. La novità che in questo momento cattura di più la mia attenzione è ovviamente l’aspetto della virtualità, della assenza e della replicabilità del corpo. Immagino che di fronte alle prime immagini cinematografiche in movimento si sia provato lo stesso sgomento.

Vivo e percepisco l’esistenza da uomo del ‘900, curioso e attratto dai cambiamenti, ammetto però un sottile disorientamento di fronte al mutamento di linguaggio della nostra epoca. Non mi do per vinto, non in un atteggiamento di restaurazione, che mi lascerebbe temo fatalmente isolato, ma attento alle conseguenze che questo porta e porterà all’oggetto principale della mia passione lavorativa: l’essere umano e i suoi comportamenti.

Come attore non posso ignorare che io sono il mio corpo. Il mio corpo è il mio ufficio, il mio luogo di lavoro, il mio strumento e la mia immagine. Parola questa di gran moda di cui però sta radicalmente cambiando il significato. Con l’uso sempre più massiccio dei social media l’immagine è diventata non più solo l’identità esteriore della personalità di un individuo ma un complesso sistema di rappresentazione di sé sempre più valutato in termini estetici, professionali e di profitto.

La mia esperienza mi ha insegnato che la nostra immagine non ci appartiene, che ognuno ha un’idea di noi che ha a che fare con la percezione creata dal vissuto di chi ci guarda, non da chi siamo noi. Per alcuni io sono Buscetta, per altri D’Artagnan, sono loro a scegliere secondo i loro gusti e ciò che hanno preferito, sono i loro sguardi a fare la mia immagine. Quando ho iniziato a fare questo mestiere pensavo che fosse un viaggio iniziato con una piccola valigia che pian piano avrei riempito delle mie esperienze fino a farla diventare un baule ricolmo, oggi mi rendo conto con sollievo e gioia che la valigia si fa invece sempre più leggera perché il suo contenuto è condiviso con chi guarda il mio lavoro, perché a vestirmi, oltre le parole e le idee degli autori che interpreto, sarà l’immaginazione del pubblico e il suo vissuto. Credo insomma che un attore non possa che suggerire un corpo ma che poi a dargli forma sia sempre chi lo osserva.

In fondo penso che un bravo attore sia come un sacerdote laico: non può convincerti della sua verità ma può farti supporre che esista fino a che tu ci creda.

Credo sia evidente che per me esista un lato spirituale o quantomeno simbolico del quotidiano e che ritrovo anche nel mio mestiere per come lo intendo. Venendo dal teatro per me è impossibile prescindere da una funzione collettiva del mondo dello spettacolo. So bene quali pagine mi stanno chiedendo questo intervento ma non credo di offendere nessuno nel dire che nel nostro paese, anche nei centri più piccoli, troverete una chiesa ed un teatro. Questo è un segno del fatto che le collettività si sono sempre riconosciute due spazi fondamentali di condivisione, quella religiosa e quella laica. Due zone di raccoglimento e di riconoscimento di espressioni diverse del sé collettivo. Gli spazi teatrali sono delle piazze, la loro architettura è un abbraccio, un confine ideale di un piccolo mondo intento a guardare, riflessi di volta in volta nelle varie storie, i propri sogni, i propri incubi o per dirla con Platone, i propri demoni.

A fianco a degli sconosciuti, nel buio. Insieme. Ecco, credo che questa sia davvero la parola minacciata da questo momento storico. Insieme. Iniziamo ad averne una visione statistica e sempre più raramente emotiva ed esperienziale. Siamo molto presi a contare, ad aggiungere numeri, che altri ci assicurano essere persone, al portafoglio dei nostri ego. Solo che tutto questo non prevede quell’incidente magnifico e imprevedibile che è l’incontro con l’altro, il diverso da noi; prendo a prestito dal vocabolario cristiano e me ne scuso: la Grazia di quell’incontro.

Non mi voglio addentrare in campi che non governo e torno quindi a quelli che abito con più frequenza per spiegarmi meglio. Nella recitazione esiste “il momento di Grazia”. È di solito quell’istante a volte imprendibile e irreplicabile, in cui l’attore non si occupa più di ciò che fa, non osserva sé stesso mentre sta dicendo una battuta o compiendo un gesto ma ponendo tutta la sua attenzione sul suo compagno di scena, si scorda di sé dando vita insieme all’altro a qualcosa che da soli, entrambi, non avrebbero mai potuto generare. Capita, dopo questi rari momenti, di aver abitato uno spazio e un tempo “altri”, come al di fuori di sé e al contempo nella parte più profonda di noi stessi.

Il motore di questo viaggio, per entrambi gli attori, è stato il partner. Ci vuole coraggio, abbandono e ascolto perché questo possa avvenire e ci vogliono Maestri che sappiano costruire in te la fiducia nel salto in quel vuoto apparente nel quale una volta fluttuato non si vede l’ora di poter tornare. Più facile e remunerativo è invece il monologo. Più fine a sé stesso e più appagante per l’ego. L’attore ascolta le sue parole risuonare nello spazio, il pubblico ne loda lo sforzo fisico e il sudore. La prodigiosa memoria. Come se dopo un concerto si parlasse di quanto pesa il pianoforte o la partitura.

Invece ai concerti andiamo per sentire la musica e non sappiamo più se a regalarci quel momento in cui ci siamo persi sia stato lo strumento o chi lo ha suonato ed applaudiamo tutto, dita e tasti per averci regalato quel suono che ci ha portato via.

Ecco, a quel corpo di persone che applaudono io sento di fare parte. A chi ha ancora voglia di non sentirsi completo senza l’altro, chiunque egli sia e da qualsiasi parte del mondo venga. Chissà che forse, insieme, capiremo chi siamo.

di Pierfrancesco Favino