Una riflessione ancora attuale sul Vaticano II

Riconciliare
l’umano con il cristiano

 Riconciliare  l’umano con il cristiano  QUO-116
20 maggio 2023

Con lo sguardo verso il futuro


«Il Concilio ci ha detto che non potremo più usare il linguaggio della forza, che dovremo dialogare con tutti gli uomini, accettare le regole ed i rischi del dialogo, invitare gli uomini e le nazioni a fare altrettanto», così Domenico Sassoli nel lungo articolo pubblicato su «Humanitas» nel febbraio del 1966, sull’evento del concilio Vaticano ii conclusosi due mesi prima.

Una Chiesa che rischia, rischia perché vuole dialogare con gli uomini e le nazioni, questa è la Chiesa che pre-vede, che vede davanti a sé, il giornalista toscano. La sua previsione suona appassionata, esigente. Chiede alla Chiesa di non essere più “muscolare”: «Se oggi noi continuassimo a mostrare la Chiesa come una grande potenza politica che effettui le sue scelte in base a un calcolo di potenza, se ci compiacessimo di contemplarla e di farla contemplare nel trionfale splendore dei suoi riti antichi, il mondo contemporaneo non la comprenderebbe. Forse anche la odierebbe». La sua previsione suona profetica: «Ma se potremo mostrare una Chiesa che accorre in aiuto ai poveri ed agli afflitti di ogni continente e colore, una Chiesa che si gloria soltanto di servire l’umanità e di parlare il linguaggio della sua speranza e della sua paura, una Chiesa alleata di tutte le buone volontà, capace anzi di organizzare nell’interesse di tutti gli uomini — difficilmente una Chiesa simile potrebbe incontrare dei rifiuti».

Lo sguardo di Sassoli — del quale oggi ricorre l’anniversario della morte, avvenuta il 20 maggio 1992 —  è teso verso il futuro e così chiede alla Chiesa di fare, di vivere la «tensione verso l’avvenire», di non essere «indietrista» per usare le parole di Papa Francesco perché «qualche volta, in passato, nel compiere il nostro lavoro, ci siamo lasciati distrarre; nel voltarci indietro, abbiamo smarrito la Traccia e ne è nata una gran confusione».

Ri-volgere lo sguardo in avanti è urgente, scrive Sassoli, perché il tempo che stiamo vivendo è quello di un profondo «cambiamento d’epoca» che necessita di un «rapporto nuovo tra fede e realtà, fra spirito e materia, insomma fra il Cristianesimo e le radicali metamorfosi che si stanno compiendo. 

C’è bisogno di dimostrare che viviamo realmente in un’epoca di grandi trasformazioni e che tali trasformazioni, rese necessarie dal progresso scientifico e tecnico (ma non soltanto da esso), hanno una profonda e misteriosa risonanza nel cuore dell’uomo, nel suo pensiero, nella sua volontà, nella sua sensibilità, nel suo stile e ritmo di vita, nel suo comportamento?». C’è bisogno di dimostrare perché queste parole del ‘66 siano oggi di una impressionante attualità? (Andrea Monda)

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Riproponiamo un articolo sul Concilio Vaticano II pubblicato nel febbraio del 1966 dalla rivista «Humanitas».

Il Concilio è finito, ma appena incominciata è l’opera di rinnovamento che esso ha postulato. Nell’Evangelo è scritta la parola d’ordine che guiderà la Chiesa e il Popolo di Dio nella fase storica che si è aperta loro davanti: «Chi mette mano all’aratro e guarda indietro, non è degno di Me». La Parola di Gesù segna la linea ideale che fende i secoli; seguendo quella linea, noi cristiani, aratori del podere di Dio, il mondo, possiamo tracciare dei solchi diritti e fecondi. Qualche volta, in passato, nel compiere il nostro lavoro, ci siamo lasciati distrarre; nel voltarci indietro, abbiamo smarrito la Traccia e ne è nata una gran confusione. Grazie al concilio, i punti di riferimento sono stati di nuovo individuati, sicché possiamo rimettere mano al l’aratro con sicurezza e forza nuova.

L’immagine evangelica dell’aratore ci aiuta a capire l’importanza del concilio e perché esso venne convocato. Non c’erano eresie da combattere: nel mondo moderno, l’eresia non provoca più gli sconvolgimenti di un tempo. Neppure c’erano questioni di disciplina da sistemare: forse mai il mondo aveva visto una gerarchia ed un laicato così disciplinati in ogni ordine e grado. Perché allora la Chiesa si riunì a concilio? La risposta non può essere che la seguente: perché essa aveva acquistato consapevolezza della impossibilità di potere integrarsi nelle prospettive del mondo moderno finché fosse rimasta a rappresentare le epoche passate, oramai in via di scomparizione. Queste cose disse, in sostanza, Giovanni xxiii quando convocò il Concilio. Disse: io riunirò un Concilio affinché possiamo aggiornarci e ritrovare il nostro dinamismo, il nostro entusiasmo, integrarci nel mondo, andare verso gli uomini, perché essi possano considerarci di nuovo loro fratelli e vedere in noi la Chiesa dei tempi moderni.

Nell’idea del Papa, il termine «aggiornamento » voleva tradurre (e in realtà tradusse) in linguaggio moderno la frase di san Paolo: purificatevi del vecchio fermento onde siate una nuova pasta. Tutti sono d’accordo nell’affermare che il Vaticano secondo ha restituito ai cristiani la tensione verso l’avvenire, una rinnovata carica di speranza; questo riconoscimento rappresenta certamente la prova più evidente della sua necessità e del suo successo. Ma il concilio non avrebbe potuto conseguire un risultato così straordinario, se non fosse stato in grado di aprire l’animo dei cristiani alla comprensione delle aspirazioni profonde del tempo presente e a stabilire le premesse di un rapporto nuovo tra fede e realtà, fra spirito e materia, insomma fra il cristianesimo e le radicali metamorfosi che si stanno compiendo. C’è bisogno di dimostrare che viviamo realmente in un’epoca di grandi trasformazioni e che tali trasformazioni, rese necessarie dal progresso scientifico e tecnico (ma non soltanto da esso), hanno una profonda e misteriosa risonanza nel cuore dell’uomo, nel suo pensiero, nella sua volontà, nella sua sensibilità, nel suo stile e ritmo di vita, nel suo comportamento?Non sempre noi, cristiani, ci siamo sentiti a nostro agio di fronte al vario e complesso mondo contemporaneo. Un primo segno di smarrimento — primo almeno perché espressione delle reazioni immediate, — si rivelava forse proprio nella tendenza a liquidare, a condannare in blocco, come cosa cattiva, qualche volta addirittura come opera di Satana, il progresso.

La letteratura cristiana contemporanea è, in generale, piena di grida di allarme, di voci di apprensione nei riguardi della cosiddetta civiltà di massa, della civiltà della tecnica, viste e intese quasi sempre come piattaforme e veicoli di espansione dello spirito materialistico, dell’ateismo, come cause principali del progrediente processo di dissacrazione della vita, pubblica e privata. Noi ci siamo spesso sentiti invadere dalla sacrosanta paura che la corsa del progresso ci trascinasse irresistibilmente verso il baratro. Certo, non neghiamo che materialismo e ateismo, come fenomeni di massa almeno, mantengono un legame assai stretto e diretto con la civiltà moderna e che lo scientismo si riveli una potente arma distruttiva delle varie forme in cui si è manifestato fino adesso il sentimento del sacro; ma non è forse vero che i cristiani non sempre sono stati in grado di comprendere quanta «materia spirituale» occorra per costruire tutte quelle macchine che vediamo all’opera, per iniziare l’esplorazione degli spazi cosmici, per costruire i grattacieli delle nostre città, per rendere fecondi i deserti, per fare funzionare enormi complessi industriali?

No, non è sostenibile che la civiltà moderna, sol tanto perché ci appare indissolubilmente legata alla macchina, al progresso tecnico e alla razionalità, debba necessariamente condurre al trionfo dello spirito materialistico, alla vittoria della materia sullo spirito. Chi oserebbe negare che, nella sua più autentica motivazione, l’ateismo, proprio in questo fenomeno di massa, non presti la sua voce alla richiesta esigente, pressante e generale, di una concezione di Dio e dell’aldilà che sia più elevata e seria di quella che noi, cristiani eravamo, fino a poco tempo fa almeno, in grado di offrire?

Nessuno potrebbe più credere (e in realtà, nessuno ci crede più) che Dio viva al di sopra delle nuvole, che nell’azzurro del cielo, fra le stelle, si innalzi il Suo trono circondato da milizie celesti, che sia possibile udire la Sua voce nel tuono e che la Sua ira si manifesti nelle tempeste e nello schianto della folgore. Nessuno crede più in queste primitive cosmogonie. L’uomo contemporaneo conosce le leggi che governano il corso degli astri, l’avvicendarsi delle stagioni e la meteorologia; egli ha piena consapevolezza di essere più vicino alla verità di quanto non fossero gli uomini di una volta, i quali vedevano nei fenomeni della natura una manifestazione della potenza divina. Non ci può essere dubbio: sentirsi vicini alla verità, significa anche essere prossimi ad una concezione più elevata di Dio.

I Documenti conciliari fanno tabula rasa dei tanti pregiudizi che oramai intorbidivano la fede: la scienza (e la civiltà che ad essa orgogliosamente si richiama) nel suo compito di scoperta e di chiarificazione dell’universo, nella sua tensione verso l’infinito, può essere paragonata ad una scala altissima sui cui gradini, faticosamente guadagnati uno dopo l’altro, l’uomo può arrivare ad imbattersi di nuovo nel divino e, nella ebbrezza dell’incontro, ritrovare una fede pura, liberatrice ed a sua volta, liberata da ogni genere di incrostazioni e di superstizioni.

Il conforto che ci arrecano questi Documenti è grande: essi si confermano e rasserenano nella convinzione della perfetta conciliabilità, oseremmo dire del rapporto di complementarietà, tra fede e ragione, per cui l’esaltazione della ragione spiana la via al rafforzamento della fede.

Come ogni altra epoca della storia umana, anche la nostra, accanto agli inevitabili inconvenienti, presenta dunque dei vantaggi, delle indubbie «aperture». Tanto per fare qualche altro esempio, nella marcia oramai inarrestabile e così ricca di promesse del mondo contemporaneo verso l’unità, nell’accresciuto senso della eguaglianza e della solidarietà umana (caratteristi che, anche queste, della nostra età) non sarà forse possibile vedere il sopravvivere ed il progressivo realizzarsi del messaggio cristiano?

E nel più diffuso e profondo (rispetto alle generazioni precedenti) sentimento della responsabilità, personale e collettiva, che deriva all’uomo moderno dalla riscoperta del proprio valore, della propria dignità, del bene insostituibile della libertà, non sarà forse possibile scorgere il tramandarsi, sia pure sotto forma di nostalgia invincibile, e il riaffiorare della sua originaria vocazione di collaboratore di Dio nella creazione — della quale il progresso rappresenta la continuità — nel governo del mondo?

Il discorso che queste considerazioni potrebbero aprire è assai ampio e ricco di spunti. Partendo dal presupposto che l’uomo, oltre che suddito, è collaboratore di Dio, noi potremmo arrivare a dare delle risposte accettabili a tutte le preoccupazioni dell’umanità contemporanea.

Ad esempio, al quesito concernente il fondamento della sua dignità, la giustificazione del suo diritto di essere libera e di liberarsi di ogni sorta di ceppi e di catene, di avere garantita in qualsiasi momento e contingenza la sicurezza della sua vita, di vedere tutelata la pace sociale ed internazionale come bene supremo, condizione essenziale, irrinunciabile, dell’affermazione della sua personalità.

Con i suoi Documenti, il Concilio apre, come si vede, davanti ai nostri occhi dei panorami sconfinati di attività e di speranze. Certo, Satana è sempre vigile a cogliere e sfruttare le nostre debolezze. Egli continuerà a mostrarci i regni e i potentati della terra, perché gli è ben nota la nostra propensione a inebriarci di tali visioni. Ma il Concilio ci ha detto che non potremo più usare il linguaggio della forza, che dovremo dialogare con tutti gli uomini, accettare le regole ed i rischi del dialogo, invitare gli uomini e le nazioni a fare altrettanto.

Se oggi noi continuassimo a mostrare la Chiesa come una grande potenza politica che effettui le sue scelte in base a un calcolo di potenza, se ci compiacessimo di contemplarla e di farla contemplare nel trionfale splendore dei suoi riti antichi, il mondo contemporaneo non la comprenderebbe. Forse anche la odierebbe.

Ma se potremo mostrare una Chiesa che accorre in aiuto ai poveri ed agli afflitti di ogni continente e colore, una Chiesa che si gloria soltanto di servire l’umanità e di parlare il linguaggio della sua speranza e della sua paura, una Chiesa alleata di tutte le buone volontà, capace anzi di organizzare nell’interesse di tutti gli uomini — difficilmente una Chiesa simile potrebbe incontrare dei rifiuti. I viaggi di Paolo vi in Terrasanta e in India, il suo vigoroso intervento alle Nazioni Unite, le sue iniziative di pace per il Vietnam, sono «segni» carichi di promesse. La Chiesa del Vaticano secondo si sta presentando, nella pienezza della sua vocazione divina, come un saldo organismo capace di dare una risposta a tutte le richieste dell’uomo moderno, ma anche di insegnare all’uomo come servirsi dei grandi doni che la sua età gli offre.

Perché caratteristica della nostra età è appunto la sovrabbondanza di valori materiali e spirituali, la varietà delle ideologie, la varietà della varietà. Quando mai l’uomo ha avuto tante possibilità di scelta? Purtroppo, mai egli è stato tanto incerto come oggi nelle sue scelte. Con il Concilio ed in virtù del concilio, la Chiesa si è assunta la missione di insegnare agli uomini che scegliere secondo la natura umana equivale a scegliere in modo cristiano.

di Domenico Sassoli