La Santa Sede alla Biennale Architettura di Venezia

Nel segno
dell’amicizia sociale

 Nel segno  dell’amicizia sociale  QUO-115
19 maggio 2023

Il Padiglione della Santa Sede, che si apre oggi alla 18esima Mostra di Architettura della Biennale di Venezia, ha scelto la categoria dell’«amicizia sociale» che Papa Francesco ha posto al centro della sua enciclica Fratelli tutti. Nelle sale e nel giardino dell’Abbazia benedettina dell’isola di San Giorgio, la proposta gestita dal Dicastero per la Cultura e l’Educazione mette in dialogo due generazioni: da un lato uno dei massimi architetti del nostro tempo, Álvaro Siza, che il prossimo mese di giugno compirà 90 anni, e dall’altro uno dei collettivi di architettura più innovativi che si battono per un’architettura basata su pratiche collaborative, dove le preoccupazioni ecologiche sono molto presenti: lo Studio Albori (costituito dagli architetti Emanuele Almagioni, Giacomo Borella e Francesca Riva). Come è noto, il tema generale di questa edizione della biennale, The Laboratory of the Future, è stato scelto dalla curatrice Lesley Lokko, adottando come programma prioritario il concetto di «cambiamento», giustificato così: «Noi architetti abbiamo un’occasione unica per proporre idee ambiziose e creative che ci aiutino a immaginare un futuro più equo e ottimistico in comune».

Il Padiglione della Santa Sede cerca senz’altro di rispondere a questa sfida. La proposta che il Dicastero ha rivolto agli architetti invitati è di confrontarsi con le due encicliche di Papa Francesco, Laudato si’ e Fratelli tutti, cercando in esse spunti per pensare a un futuro comune. Da parte nostra, è anche un modo per celebrare i dieci anni di pontificato di Francesco e l’importante potenziale di dialogo che la visione del Papa offre alla cultura contemporanea. La progettazione concettuale del Padiglione è stata affidata a un curatore, l’architetto Roberto Cremascoli, e a un team scientifico e tecnico, con nomi di spicco come l’architetto Mirko Zardini. Il titolo scelto è Amicizia sociale: incontrarsi nel giardino.

Può sembrarci una categoria insolita quella dell’«amicizia sociale». Siamo abituati a declinare l’amicizia come una categoria personale e privata e, per parlare delle relazioni nella società, ricorriamo a termini più generali come rispetto, solidarietà, civismo, cittadinanza, ecc. Riserviamo la parola «amicizia» alla cerchia elettiva dei nostri affetti, cosa peraltro consigliata da varie tradizioni sapienziali a partire da quella biblica. Ma la proposta del Papa prende le mosse dalla situazione del nostro tempo, in cui la globalizzazione ci ha resi vicini ma non fratelli. Al contrario, siamo più distanti e soli, più disgregati e vulnerabili, confinati allo status di spettatori e consumatori. È palese come le nostre società abbiano difficoltà a costituirsi come un progetto che riguardi tutti. Ovviamente non ci sentiamo compagni di viaggio sulla stessa barca e coinquilini della stessa casa comune.

Come si legge nell’enciclica, «certe parti dell’umanità sembrano sacrificabili a vantaggio di una selezione che favorisce un settore umano» a scapito di un altro (Fratelli tutti, n. 18). L’«amicizia sociale» è un tentativo di invertire questa situazione. La sfida che ci lancia Francesco è ad andare “oltre”, per esempio comprendendo che l’amicizia non è un club esclusivo ma una scuola dove allenare delle competenze da applicare universalmente. Gli amici che hanno cura solo dei propri amici rimpiccioliscono l’orizzonte dell’amicizia. L’esperienza dell’amicizia e dell’amore deve servire ad aprire il cuore anche a ciò che ci circonda, a renderci sensibili a esso, coinvolgendoci nella sua qualità etica, dotandoci della generosità necessaria per uscire da noi stessi e accogliere tutti. Noi non esistiamo nel vuoto, ma in un contesto ampio e diversificato di relazioni di cui siamo corresponsabili. L’«amicizia sociale» è una categoria da inquadrare nell’ambito della fraternità, di una compassione attiva e della pratica concreta della speranza. E ci chiede di progettare l’architettura del mondo come esercizio di responsabilità, invece che come normalizzazione dell’egoismo e dell’indifferenza.

di José Tolentino de Mendonça