Intervista all’arcivescovo di Tokyo, neoeletto presidente di Caritas Internationalis

Aiutare le persone dimenticate
a ritrovare la speranza

 Aiutare le persone dimenticate a ritrovare la speranza  QUO-112
15 maggio 2023

«Aiutare le persone a sapere che non sono dimenticate, questa è la vera missione della Caritas». Il nuovo presidente di Caritas Internationalis, monsignor Tarcisio Isao Kikuchi, arcivescovo di Tokyo, descrive così la funzione della confederazione cattolica internazionale, all’indomani della sua elezione, per un mandato di quattro anni, da parte dei 400 delegati presenti alla 22a assemblea generale dell’organizzazione. In un’intervista ai media vaticani, l’arcivescovo condivide le sue speranze per questa sua nuova missione e anche un messaggio diretto agli innumerevoli volontari che manifestano l’amore di Dio in atti concreti di servizio.

Eccellenza, nel suo nuovo ruolo di presidente di Caritas Internationalis, quali obiettivi ha per questa missione?

Caritas Internationalis è la seconda agenzia di aiuti umanitari al mondo dopo la Croce Rossa Internazionale. È quindi conosciuta come ong professionale, che offre assistenza alle persone in situazioni difficili, ma in realtà non siamo solo una ong, siamo molto di più. Siamo un’organizzazione della Chiesa cattolica e un istituto al servizio della Chiesa. Ciò significa che la Caritas deve essere una testimonianza dell’amore di Dio. Quello che facciamo non è solo fornire cibo o materiale o qualsiasi altro tipo di assistenza, siamo anche testimoni dell’amore di Dio, per mostrare alle persone che è così che il Signore ama tutti gli uomini.

Una delle vostre attenzioni durante l’assemblea generale è stata rivolta alle persone dimenticate, a coloro che non sono sostenuti dalle altre organizzazioni. In che modo la Caritas si rivolge a loro?

Vorrei attingere alla mia esperienza di volontario di Caritas Giappone. Nel 1995 sono stato inviato nel campo dei profughi ruandesi a Bukavu, nello Zaire (ora Repubblica Democratica del Congo, ndr). Lì ho incontrato diversi rifugiati. Naturalmente mancava tutto. Non c’era cibo, non c’erano vestiti, non c’era un riparo e la gente aveva bisogno di tutto. Poi, la seconda volta che sono andato al campo, ho conosciuto alcuni dei loro capi, ho chiesto loro di cosa avessero bisogno, mi aspettavo che dicessero: «Abbiamo bisogno di cibo, di istruzione, di medicine, di un riparo», o qualcosa del genere. In altre parole, un lungo elenco dei loro bisogni. Ma invece le parole furono: «Padre, tu vieni dal Giappone. Quindi, quando tornerai in Giappone, di’ loro che noi siamo ancora qui: siamo tutti dimenticati». Questo mi ha davvero scioccato. Dopo quell’esperienza, ho incontrato tante persone in diverse aree, in diversi Paesi colpiti da disastri, persone in zone devastate da guerra o da conflitto. Ho sentito sempre la stessa storia e lo stesso grido: «Siamo dimenticati, siamo dimenticati». Questa è la vera missione della Caritas: aiutare le persone a sapere che non sono dimenticate. Vogliamo essere con loro. Certo, forniamo assistenza professionale, ma allo stesso tempo vogliamo dire loro che siamo sempre con loro, lavoriamo sempre con loro, ci ricordiamo sempre di loro. Nessuno sarà escluso, nessuno sarà dimenticato.

Lei stesso è stato un sacerdote missionario, oltre che un volontario. In che modo questo influisce sulla sua missione?

Appartengo ai missionari del Verbo divino, gli svd. Dopo la mia ordinazione, nel 1986, sono stato inviato in Ghana, in Africa occidentale. Lì sono stato mandato in una parrocchia, nel profondo della boscaglia, senza elettricità e senza acqua. Sono rimasto lì per sette anni come parroco. In tutto sono stato in Ghana per otto anni. È stata un’esperienza davvero importante per me, che ha contribuito a creare la mia identità, credo. Soprattutto in quel periodo, nel 1986, l’economia dell’Africa occidentale non era molto buona e la gente era davvero in povertà. Molte persone stavano morendo senza avere le medicine adeguate e l’Hiv -Aids si stava diffondendo. C’erano problemi di ogni tipo. Ma la gente sembrava così felice, ogni giorno sfoggiavano bellissimi sorrisi. Così ho chiesto a diverse persone della mia parrocchia: «Perché siete così felici?». E qualcuno mi ha detto scherzando: «Padre, abbiamo la magia del Ghana!». Allora, qual era la loro magia? Era la convinzione che qualcuno avrebbe aiutato, che nessuno sarebbe stato dimenticato. In questo tipo di contesto culturale, le persone si sostengono a vicenda. Così, non si vedono persone che muoiono sul ciglio della strada, perché nessuno viene dimenticato. Questa convinzione crea davvero speranza nella vita. Questa è stata la base della mia convinzione: se non dimentichiamo le persone, possiamo riuscire a creare la speranza di sopravvivere. Non possiamo portare la speranza dall’esterno. Possiamo portare cibo, materiali e tutto il resto dall’esterno e darli alle persone in difficoltà. Ma non possiamo portare la speranza e darla alle persone in difficoltà. La speranza deve essere creata nel loro cuore. Non possiamo ordinare loro di creare la speranza. Ma possiamo essere amici e camminare insieme. Possiamo essere con loro, in modo che abbiano la certezza di non essere dimenticati. Da questo, possono creare la speranza di sopravvivere.

di Devin Watkins