Una speciale scuola di vela fra Lazio e Toscana

A volte il mare fa volare

 A volte il mare fa volare  QUO-112
15 maggio 2023

A volte il mare fa volare. Può sembrare solo un poetico ossimoro ma è l’immagine potente che il Grande Blu sa restituirci quando, ad un solo sguardo, riesce a liberare la mente dalle trappole di cemento, dai confini, dalle chiusure, dalle paralisi del corpo e della mente, insomma da tutto ciò che incatena nella realtà e che invece si scioglie, annega in quell’immensità capace di ossigenare polmoni e pensieri.

Questo è ciò che sperimentano ogni giorno i bambini e i ragazzi dai 5 ai 18 anni che frequentano la scuola di vela residenziale “Mal di Mare”. Fondata nel 1986 a Pescia Romana, in provincia di Viterbo, e diretta da Mauro Pandimiglio con un folto gruppo di maestri e nostromo, la scuola oggi è affiliata alla Federazione Italiana Vela (Coni), è Centro per l’Avviamento allo Sport Paralimpico per la vela (Cip), è co-fondatrice della Unione Italiana della Vela Solidale. Sulle sue imbarcazioni veleggiano fianco a fianco disabili e non, stranieri e cittadini italiani, cattolici e musulmani, con l’unico intento di superare i propri ostacoli, le diversità, le barriere insieme a quello che San Francesco chiamerebbe “Fratello mare”. «Emblema e cardine della nostra scuola — racconta Pandimiglio a Vatican News e a L’Osservatore Romano — è proprio la “barca relazionale”, quello spazio navigante fragile e leggero dove l’equipaggio si confronta ogni giorno imparando a conoscersi, a sostenersi, ad affrontare il colpo di vento o la mareggiata. È l’oggetto che aiuta i giovani di qualunque età a raggiungere livelli sempre più consapevoli di autonomia. I nostri ragazzi mangiano insieme, vivono insieme, dormono insieme e siamo l’unica realtà sportiva in Italia che fa questo: la nostra cifra distintiva è l’inclusione sociale attraverso la metafora dell’incontro tra terra e mare. Non è una scuola per disabili, lo voglio ribadire, ma è una scuola per tutti; non abbiamo barche speciali ma mezzi normali; non è una scuola esclusivamente marina ma anche terrestre: il mare è solo uno strumento in più che fa però la differenza avendo questo doppio aspetto di magistero da un lato e di terapia, di cura dall’altro, soprattutto per quegli animi “fratturati”, per chi ha vissuto situazioni di trauma, per chi altrimenti si troverebbe ai margini».

Dunque il mare ma anche la spiaggia, con le barche e gli equipaggi che partono e atterrano, diventano l’aula multimediale in cui si sviluppa un forte contatto naturale nel gruppo e si alimenta in ognuno dei ragazzi il passaggio tra il saper fare e il saper essere. Gli allievi, opportunamente suddivisi in gruppi per età, partecipano anche a laboratori di musica, danza e arti circensi sulla spiaggia. La sicurezza, la partecipazione e l’apprendimento sono sostenuti sempre dal gioco e dal “prendersi cura” di sé stessi e degli altri in un clima inclusivo e affettivo. È una scuola di vela “mediterranea”, perché scavalca le divisioni nazionali e religiose per farsi alveo e contagio di culture diverse, nell’appartenenza allo stesso mare.

Dai ragazzi palestinesi ai piccoli malati del Bambino Gesù


«Abbiamo esteso questo lavoro negli anni a tutto il Mediterraneo — spiega Pandimiglio — ospitando ad esempio giovani dalla Palestina, tra cui bambini di Gaza, provenienti dai villaggi occupati, dove purtroppo c’è ancora l’Intifada, con situazioni davvero drammatiche e compromesse sul piano emotivo. I più piccoli erano cattolici, gli altri musulmani. Parliamo di minori che conoscono, loro di malgrado, forme di violenza brutale. È stato straordinario vedere però come i nostri ragazzi, fin da subito, anziché le diversità, hanno colto le somiglianze legate all’età. A dieci minuti dalle presentazioni si erano già legati affettivamente e questo ha generato una serie di complicità positive. Abbiamo avuto anche giovanissimi dal Libano, dalla Francia e dal Marocco e ogni volta abbiamo assistito a dei piccoli miracoli di incontro. Molto bello è stato anche lavorare con i bambini provenienti dall’Ospedale pediatrico Bambino Gesù. In quell’occasione abbiamo avuto la supervisione di medici dell’ospedale, di neurologi, psichiatri e abbiamo messo su un progetto che si chiamava “La cura del vento”: lo scopo era, finito il ricovero per le diverse patologie da cui erano affetti, potersi dedicare alla cura della loro salute mentale, al ripristino dell’ecologia dell’anima».

Imparare a prendersi cura


Oggi quando si parla del mare, accanto alla visione onirica di questa immensa distesa blu, non si può non pensare ai tanti mali che l’affliggono come l’inquinamento, la perdita della biodiversità, l’erosione dei fondali, l’innalzamento della temperatura e tutte le disastrose conseguenze ad esso legate, per non parlare delle tragiche morti di migranti che lo hanno trasformato in un cimitero immenso, ma sostiene Pandimiglio, non si diventa custodi del mare per dovere, piuttosto per testimonianza e vocazione: «Certamente educhiamo i nostri ragazzi al rispetto del mare che è parte del Creato però senza un richiamo morale, senza creare scissione tra il ragazzo bravo e coscienzioso che si occupa del mare, che lo ha a cuore, che si mobilita per combattere l’inquinamento e quello che invece non se ne occupa o non può occuparsene. Questo pedagogicamente ma anche umanamente è sbagliato, sarebbe un’ulteriore frattura, un’ulteriore fonte di dolore. Perciò noi diamo il buon esempio, come direbbe il Papa siamo testimoni di come il mare va trattato ma ciò che cerchiamo di far capire ai nostri ragazzi è che il mare è abitabile. Può essere casa, una casa dai confini mobili, dove tutto è in costante mutamento e immergersi in questo cambiamento, viverlo, attraversarlo, porta tanti benefici. Noi facciamo in modo che i ragazzi imparino a prendersi cura di sé stessi e degli altri e se assimilano questo riescono anche a prendersi cura del mare, a tutelarlo, come chiede Francesco nella Laudato si’».

Recuperare relazioni e connessioni


Pandimiglio insiste anche sulla forza delle connessioni, che Francesco più volte richiama nell’enciclica, sostenendo che il mare è in grado di riattivare anche quei legami recisi, interrotti, innanzitutto con sé stessi e il proprio organismo, migliorando persino l’omeostasi, poi con gli altri e con il Creato. «In questi anni — dice — abbiamo avuto nella nostra scuola anche ragazzi provenienti dal carcere, minori migranti che avevano perso i genitori, le famiglie, durante le traversate in mare e che sono riusciti a riconciliarsi con esso fino a rinascere nel senso vero e proprio. Quattrocento milioni di anni fa il mare era una grande placenta, e il processo di embriogenesi avveniva costantemente, oggi assistiamo, lavorando con i ragazzi, non solo a una nuova genesi della loro persona ma alla gioia che si sprigiona dalla rinascita. Questa è davvero l’ecologia, il farsi casa, il costituirsi natura nella natura: se tutti ci allenassimo ogni giorno a prenderci cura del Creato e dell’altro e di noi stessi, anche a piccoli passi, con piccoli gesti, vedremo realizzarsi a pieno quell’ecologia integrale di cui parla il Papa».

Una giornata tipo


Il direttore di “Mal di Mare” ci racconta anche una giornata tipo dei ragazzi che frequentano la scuola residenziale. «La sveglia è alle 7.30, si fa colazione, ci si prepara, sistemando anche le tende dove dormono. Alle 8.30 ci ritroviamo tutti insieme a leggere un brano di letteratura, una poesia che parla del mare e da lì si apre un dibattito: affrontiamo tematiche importanti come la fiducia, l’amicizia oppure qualcosa che è successo il giorno prima. Poi si scende a mare e comincia l’attività velica vera e propria. Niente teoria, il mare non si studia, si vive! Perciò da subito i ragazzi vanno in barca da soli con l’assistenza dei maestri certo, che stanno su dei gommoni e li aiutano, li affiancano ma a distanza. Poi al ritorno c’è il momento del racconto: i ragazzi si raccontano e capiscono anche dove hanno sbagliato, ma per lo più condividono la loro esperienza, il coraggio o anche la paura. Alle 13 si mangia, nel pomeriggio si riesce in mare scoprendo che sono cambianti i venti, le correnti, il colore dell’acqua e poi la sera, prima della cena, viviamo dei momenti di meditazione e riflessione. Per un’intera settimana i ragazzi sono privati del telefonino e dunque costretti ad immergersi in questa realtà che è fatta di relazioni».

Quando parliamo di “ambiente” facciamo riferimento anche a una particolare relazione: quella tra la natura e la società che la abita. Questo ci impedisce di considerare la natura come qualcosa di separato da noi o come una mera cornice della nostra vita. Siamo inclusi in essa, siamo parte di essa e ne siamo compenetrati. Le ragioni per le quali un luogo viene inquinato richiedono un’analisi del funzionamento della società, della sua economia, del suo comportamento, dei suoi modi di comprendere la realtà. Data l’ampiezza dei cambiamenti, non è più possibile trovare una risposta specifica e indipendente per ogni singola parte del problema. È fondamentale cercare soluzioni integrali, che considerino le interazioni dei sistemi naturali tra loro e con i sistemi sociali. Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale. Le direttrici per la soluzione richiedono un approccio integrale per combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura della natura. (LS 139)

di Cecilia Seppia