Hic sunt leones
Una riflessione dopo il Messaggio del Papa per la 109ª Giornata mondiale del migrante e del rifugiato

La libera decisione
di migrare o restare

 La libera decisione di migrare o restare  QUO-110
12 maggio 2023

A livello internazionale è in atto da diversi anni un ampio dibattito sul ruolo degli immigrati/emigrati, a seconda del punto di vista dei Paesi di arrivo o di partenza. A questo proposito è utile rileggere il rapporto International migration and development (A/60/871), del 18 maggio 2006, firmato dall’allora segretario generale Kofi Annan all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Nel documento, ancora oggi di grande attualità, si evidenzia a chiare lettere lo stretto legame tra migrazioni e sviluppo, auspicando maggiore attenzione da parte dei governi e delle istituzioni internazionali alle opportunità di miglioramento delle condizioni economiche e sociali sia nei Paesi di origine che in quelli di destinazione.

Uno scenario, almeno formalmente, condiviso dai maggiori esperti di migrazioni che considerano la mobilità umana, se ben governata, un fattore importante per lo sviluppo umano del migrante e della sua famiglia, del Paese di accoglienza e di quello di origine. In una battuta potremmo dire un Triple win, vale a dire un co-sviluppo a triplice vantaggio: dei migranti e dei due Paesi collegati dalla loro presenza. Come osservava già alcuni anni fa Nino Sergi, uno dei massimi esperti italiani di cooperazione allo sviluppo, «La Triple win si basa su differenti interessi da parte dei tre soggetti e su ben diverse concezioni della migrazione, della mobilità e del ritorno». In effetti, Sergi, da attento osservatore di questa fenomenologia, già all’inizio del decennio scorso, spiegava con chiarezza che per i Paesi che accolgono, la win è legata prevalentemente al successo nel controllo degli ingressi, all’impiego di manodopera per le necessità della produzione e del welfare, al contributo all’economia, alla fiscalità generale e ai consumi, al definitivo sbarazzarsi dei migranti indesiderati. Mentre invece le politiche dei Paesi più poveri o in crescita sono guidate dalle priorità dello sviluppo nazionale e la loro win è rappresentata innanzitutto dall’attenuazione del problema del lavoro che trova sbocchi nell’emigrazione, mentre i vantaggi dei ritorni differiscono in modo significativo da caso a caso in base agli specifici profili dei migranti, indipendentemente dal fatto che essi siano permanenti, temporanei, circolari o virtuali.

La win degli emigranti, infine, è guidata dal desiderio di avanzamento per se stessi e le loro famiglie. «Queste aspirazioni personali — spiegava sempre Sergi — prevalgono su quelle dei loro Paesi di origine finalizzate allo sviluppo e su quelle dei Paesi di residenza che li vorrebbero come equilibratori del mercato del lavoro e contributori dell’economia produttiva e dei servizi alla persona». Ma proprio perché l’universalità dei diritti umani non può essere subordinata agli interessi particolari degli Stati — che, come abbiamo già visto, possono essere di ordine economico, sociale, culturale e a volte politico — è evidente che l’approccio emergenziale e securitario, attuato da questo o quel governo europeo, ha indebolito di molto la cosiddetta capacità di governo dell’immigrazione da parte del Vecchio Continente nel suo complesso; almeno così come lo aveva concepito il segretario generale delle Nazioni Unite nel 2006. Proprio per questo motivo s’impone sempre più una stretta concertazione e una coordinata azione europea frutto di un permanete partenariato euro-africano che ne definisca le priorità, i vincoli, i reciproci interessi, l’ownership locale e i rispettivi ruoli. Un ragionamento questo la cui logica conclusione è che, ad esempio, nel perimetro del cosiddetto mondo villaggio globale, l’Africa ha bisogno dell’Europa ma anche l’Europa ha bisogno dell’Africa. Ecco che allora la terza componente della Triple win di cui sopra non può essere ridotta semplicemente al riconoscimento dei titoli di studio degli stranieri, a facilitazioni burocratiche e a qualche visto multiplo, anche se si tratta di provvedimenti positivi, ammesso che vengano attuati.

Partiti per ragioni economiche, gli immigrati africani (e non solo loro) lavorano cercando di migliorare le condizioni di vita proprie e dei loro cari. Pensano al ritorno solo a più lunga scadenza, quando potranno farlo assicurando alla famiglia benessere, abitazione, istruzione, cure mediche, abbigliamento e quant’altro. In questo caso, il rimpatrio può rappresentare la chiusura del ciclo migratorio che coincide con l’aspirazione al definitivo reinserimento nel proprio Paese d’origine: per goderselo da pensionato, ma anche per investire, nel commercio, in piccole imprese produttive o di trasporto, in attività agro-zootecniche e altre, che non coincidono sempre con le aspirazioni governative che puntano su investimenti più ampi.

Rimane il fatto che per l’Africa la vera sfida è proprio quella che ha indicato ieri Papa Francesco nel Messaggio per la 109ª Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, sul tema «Liberi di scegliere se migrare o restare». «È necessario — si legge nella tradizionale missiva — uno sforzo congiunto dei singoli Paesi e della Comunità internazionale per assicurare a tutti il diritto a non dover emigrare, ossia la possibilità di vivere in pace e con dignità nella propria terra»; un diritto, peraltro, che non è ancora stato codificato a livello internazionale. La posta in gioco è alta perché come ha poi spiegato il Pontefice «fino a quando questo diritto non sarà garantito — e si tratta di un cammino lungo — saranno ancora in molti a dover partire per cercare una vita migliore». Se da una parte occorre garantire lo Stato di diritto e la difesa della dignità e dei diritti fondamentali della persona, creare occupazione in Africa diventa un’assoluta priorità. Per farlo, un ruolo decisivo può essere assunto dalla cooperazione allo sviluppo che francamente, di questi tempi, non sembra essere molto di moda.

I venti di guerra che spirano impetuosi dall’Europa orientale e gli investimenti bellici in cima all’agenda dei governi rischiano di ridurre questo tipo di cooperazione al rango di una povera fantesca. Alla dimensione fondamentale della solidarietà e della gratuità, occorre certamente affiancare, rafforzandola, la dimensione imprenditoriale, gli investimenti pubblici e privati, al fine di creare impresa, occupazione, sviluppo diffuso, rispettando il diritto degli agricoltori e dei produttori locali e delle loro associazioni alla proprietà della terra e dei beni. In considerazione dell’attuale congiuntura che, a parte la crisi russo-ucraina e i suoi effetti sull’economia continentale, è fortemente condizionata dai cambiamenti climatici, gli investimenti devono necessariamente essere responsabili e sostenibili economicamente e ecologicamente. Per citarne alcuni, nei settori agricolo, alimentare, infrastrutturale, energetico, manifatturiero, tecnologico, turistico, artigianale, delle reti di trasporto, nell’uso corretto dell’acqua, nel miglioramento del suolo. Sarà poi compito dei governi locali definire le priorità nei loro rispettivi Paesi, con particolare attenzione alle micro e piccole-medie imprese, allo sviluppo cooperativo, all’economia sociale, al credito diffuso. Non sono impegni così difficili da realizzare, è però necessario volerle. Le istituzioni della cooperazione pubblica allo sviluppo europee sono indispensabili per avviare queste iniziative di co-sviluppo tra territori legati dagli emigrati/immigrati, nella cristiana certezza che abbiamo un destino comune.

di Giulio Albanese