La denatalità: il peso delle politiche e il ruolo dei fattori culturali
Una strategia per fronteggiare l’inverno demografico italiano

Ripensare la centralità
della cura e della generatività

 Ripensare la centralità  della cura e della generatività  QUO-105
06 maggio 2023

Giovedì 27 aprile a Palazzo Borromeo, nella sede dell’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede a Roma, si è tenuto il convegno “Denatalità e cultura della generatività: contro l’inverno demografico” organizzato dal Cortile dei Gentili. Hanno preso parte all’evento il cardinale Gianfranco Ravasi, Giuliano Amato, presidente della Fondazione Cortile dei Gentili, e Francesco di Nitto, ambasciatore italiano presso la Santa Sede. Abbiamo chiesto a due dei relatori dei convegno di riassumere i temi e i principali risultati del convegno.

L’ultima nota dell’ istat del 8 aprile ha creato molto scalpore. Sottraendo il tema della denatalità al torpore in cui finiscono le preoccupazioni tanto fondate quanto inutilmente evocate.

La notizia è che il tasso di nascita in Italia è oggi il più basso dal 1861 e che gli Italiani saranno 11 milioni in meno nel 2070. Cifra che, secondo l’ onu , sarebbe molto ottimistica, perché è basata sull’ipotesi che il tasso di natalità per donna resti all’1,5. In realtà siamo molto al di sotto e solo il Trentino-Alto Adige raggiungerebbe questa quota. Certo in ragione di ricchezza e di qualità della vita, come è molto ragionevolmente pensare: Bolzano ha il più alto tasso con l’ 1,72, mentre invece Rimini, ad esempio, ha un bassissimo tasso di natalità pur avendo parità di servizi e di Welfare efficiente. Insomma medesimo benessere e tassi di natalità opposti: un esempio, questo, di come la denatalità sia la conseguenza di una pluralità di fattori spesso contraddittori al loro interno.

Da tempo “Il Cortile dei Gentili” , presieduto dal cardinale Gianfranco Ravasi e dal professore Giuliano Amato, approfondisce i temi legati all’intelligenza artificiale e alla “generatività”. L’ultimo documento prodotto dalla Consulta scientifica è dedicato alla Denatalità e cultura della generatività. Contro l’inverno demografico. Presentato il 27 aprile all’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede da esperti di diverse discipline, ne approfondiamo qui alcuni aspetti.

L’importante e costante calo delle nascite a fronte dell’aumento delle aspettative di vita che continuano ad allungarsi fa invecchiare in modo significativo la popolazione: l’età media degli italiani è oggi di 48 anni, la più alta dei 27 Paesi dell’ ue . Attorno al 2050, la fascia di età prevalente sarà tra i 60, i 65 anni e oltre.

La conseguenza del calo demografico è il declino dell’Italia. Molti demografi sostengono che il punto di non ritorno non sia solo più vicino, ma sia ormai superato. Già da anni si è invertito l’assioma secondo cui, come si diceva un tempo, “si facevano più figli” nelle zone arretrate del mondo e, in Italia, nel nostro sud: perché i figli erano una risorsa e non un peso, nell’aiuto dei campi e utili per la solidarietà intergenerazionale nella famiglia, perché la cultura patriarcale era ancora solida e la donna non aveva un lavoro fuori casa.

Da tempo siamo alla totale inversione di questi paradigmi: si fanno più figli nelle zone più ricche del Paese, e si sfalda l’idea che il lavoro femminile fuori casa renda più difficile procreare. Il crollo delle nascite si ebbe nel 1970 e nel 1995 quando raggiunse il 43%.

Ora stiamo quasi raggiungendo il traguardo del Paese che ha il tasso di fecondità più basso del mondo (per tasso di fecondità si intende un numero medio di figli in età feconda. E per mantenere la struttura demografica costante servirebbe un media di 2,1 figli per donna, ben lontana dal potere essere raggiunta).

Con l’attuale tasso di natalità la popolazione italiana si ridurrà dai meno di 60 milioni di oggi a meno della metà tra sessanta anni.

Che fare?


Se volessimo semplificare potremmo dire che in Europa ci sono due strategie di fondo per arginare il declino demografico: una è quella più congiunturale ed emergenziale — ed è la scelta dell’Ungheria e dei Paesi slavi — volta a “remunerare la procreazione” con provvedimenti assistenziali e sgravi fiscali. L’altra è quella che, avviata per prima dalla Francia e in un secondo momento dalla Germania, ha un intento più strutturale e di medio-lungo periodo e prevede investimenti nei servizi per l’infanzia, nell’occupazione femminile e quindi parità salariale e in generale in un Welfare rivolto alla cura, intesa non solo come assistenza ma come vero e proprio valore in sé.

L’Italia per ora si colloca in una via di mezzo tra questi due indirizzi. Con le politiche degli ultimi anni, (soprattutto del governo Draghi) il così detto Family act ha cercato di percorrere la seconda strategia, quella più strutturale. Il governo attuale sceglie un mix tra le due e sembra intenzionato a investire in quella direzione. Anche grazie al pnrr .

I servizi sono i pilastri delle politiche strutturali. L’Italia ha scontato un ritardo anche per la diffidenza verso “l’intervento dello Stato” sull’infanzia per ragioni culturali come quella secondo la quale nella prima infanzia il bambino non è bene vada all’asilo nido ecc. ecc.. Tante furono le polemiche su questo tema tra le donne democristiane e le donne comuniste negli anni Cinquanta e Sessanta.

L’esempio francese — unica e prima nazione che ha visto una importante crescita demografica — dimostra che la crescita demografica aumenta in proporzione all’incremento dell’occupazione femminile (il secondo stipendio che accompagna il secondo figlio) e, dunque, della parità salariale insieme a incentivi economici da parte della aziende in favore della maternità, al posto dei brutali licenziamenti.

In conclusione è fondamentale aumentare il numero degli asili nido, rendendoli del tutto gratuiti, e non solo come parcheggio ma come investimento per la crescita dei piccoli. Inoltre, occorre istituire congedi parentali che coinvolgano anche i padri (siamo gli unici in Europa a non averli) e non in forma simbolica di pochi giorni. Infine, l’assegno unico che sostituisce, semplificando, la frammentazione degli assegni familiari, è stato istituito finalmente anche da noi con un grande investimento di 16 miliardi all’anno per 6 milioni di famiglie per un totale di 9 milioni di figli a partire dal settimo mese di gravidanza. Tuttavia, i servizi non bastano se non c’è ripartizione uomo/donna nella cura (ognuno con la propria specificità genitoriale e non in senso solo banalmente paritario/rivendicativo).

Ripensare la cura


Noi crediamo che vada cambiato nel profondo il concetto e la pratica della cura intesa sia come Welfare sociale (il nostro modello di welfare è in crisi, pensiamo al disastro della sanità pubblica) sia all’interno della famiglia, nelle relazioni uomo-donna e tra generazioni tra figli e anziani. Questo soprattutto per favorire una corresponsabilità intergenerazionale.

La cura, dunque, non può essere una pesantezza punitiva, un disvalore. Quasi fosse un tempo sottratto a “ciò che conta davvero” sempre inferiore ad altre priorità dalla gratificazione immediata. Va invece vista come tempo di vita e di significato. Una realizzazione di sé sempre più autocentrata è spia di una crescente fatica nelle relazioni. Tutte. Insomma, dobbiamo chiederci come far sì che il generare, il procreare non sia più inteso come mortificazione ma come orizzonte di senso, di significato. E fonte di creatività e di gioia.

Qui sta il filo della nostra elaborazione come “Cortile dei Gentili”, su cui abbiamo lavorato a partire dal documento Demografia, economia, democrazia (Ecra 2020) fino alla realizzazione di due pubblicazioni che hanno avuto una ampia diffusione: Pandemia e resilienza, edizioni cnr , Roma 2020 e Pandemia e generatività, edizioni cnr , Roma 2021.

L’importanza degli interventi materiali di sostegno alla maternità è innegabile, non di meno, e noi diremmo forse di più, lo è indagare i profondi cambiamenti antropologici, psicologici ed etici della maternità. Perorare il valore del generare non significa demonizzare la scelta libera e consapevole di chi decide di volgere il proprio senso genitoriale verso altri “oggetti” che non siano i figli. L’esclusione dei figli può aprire, al contrario, anche ampi orizzonti di altruismo. Tanto più che la componente di egotismo, connaturale e insita nel procreare, non conosce oggi quel senso del limite che dovrebbe accompagnare un sano narcisismo, il narcisismo “buono” verso il figlio biologico. Insomma, il desiderare figli naturali non è di per sé e sempre sinonimo di apertura generativa.

Per quanto riguarda la maternità, inoltre, abbiamo uno dei paradossi più emblematici del rapporto con ciò che è il “naturale” e “artificiale”.

Da quando, con l’avvento, ormai lontano, degli anticoncezionali, la possibilità di separare sessualità e riproduzione ha portato alla la così detta maternità consapevole, scelta e voluta, l’intervento dell’“artificiale” è cresciuto raggiungendo forme di vera manipolazione e spezzettamento del processo generativo .

Pensiamo al caso del seme di un uomo che feconda l’ovulo di una donna, che a sua volta viene impiantato in un’altra donna la quale consegna il prodotto finito sotto forma di bambino a una terza donna, la così detta madre intenzionale (cioè l’unica figura che voleva un figlio a tutti costi e che non ha avuto alcuna parte in quel processo).

Casi rari? Per ora. In attesa dell’applicazione dell’utero artificiale e delle ovaie crioconservate — e non più solo degli ovociti — le possibilità diciamo così “inseminative” alludono ad una sorta di accanimento riproduttivo che va indagato nelle sue profonde implicazioni: certo non semplicemente stigmatizzato ma neppure del tutto assecondato. Certamente va molto più approfondito di quanto non si faccia. Perché il desiderio di maternità viene spesso confuso o sostituito con il diritto alla maternità. Mentre il desiderio non è, di per sé, un diritto.

In una società in cui i giovani, per necessità e paura , sfuggono le scelte irreversibili — o che sono procrastinate fino ad esserlo — come è quella di fare figli, la maternità da una parte è svalorizzata e non aiutata socialmente e , dall’altra, è ricercata “senza limiti” e delegata alla “tecnica” .

Questo è un rapido panorama delle problematiche che il “Cortile dei Gentili” sta affrontando: ora ha in esame un ampio studio sul tema della sanità. Nella consapevolezza che indagare il post-umano e l’intelligenza artificiale — i nostri temi futuri — abbiano molto a che fare con la maternità.

di Emma Fattorini
Professore ordinario di Storia contemporanea all'Università La Sapienza e membro della Consulta Scientifica del “Cortile dei Gentili”

 

I dati

In Europa nascite in calo e tendenza
all’invecchiamento della società 


Malta, Spagna e Italia sono i Paesi dell’Unione europea in cui si fanno meno figli. È il quadro che emerge leggendo i dati di Eurostat, l’Ufficio di statistica dell’Ue. I tre Paesi contano rispettivamente un tasso di 1,13, 1,19 e 1,25 nascite per donna, rispetto ad una media nell’Ue di 1,53. 

Per l’Italia il dato segna un calo rispetto agli anni tra il 2008 e il 2010, quando sul territorio nazionale la media era di 1,44 nascite per donna. Tendenza positiva, invece, per la Francia, che si trova al primo posto nella classifica Eurostat con una media di 1,84 nascite per donna. Seguono Repubblica Ceca con 1,83, Romania con 1,81 e Irlanda con 1,78. 

Nel 2021 in tutta Europa sono nati 4,09 milioni di bambini. Un dato in leggero aumento rispetto al 2020, quando erano nati 4,07 milioni di bambini. Nel complesso, c’è stata una tendenza al ribasso del numero di bambini nati nell’Unione europea iniziata nel 2008, quando si contavano 4,68 milioni di nuovi nati. 

Secondo le ultime proiezioni diffuse da Eurostat, la popolazione dell’Ue diminuirà del 6% tra il primo gennaio 2022 e il primo gennaio 2100, ovvero un calo di 27,3 milioni di persone. Dopo il calo nel 2020 e nel 2021, a causa dell’impatto della pandemia del covid-19, la popolazione dell’Ue ha fatto registrare un lieve ripresa nel 2022. Come conseguenza dei flussi di rifugiati arrivati nei Paesi dell’Ue dall’Ucraina, si stima che la popolazione nei confini dell’unione abbia raggiunto i 451 milioni di persone nel gennaio del 2023. Le proiezioni, diffuse da Eurostat sulla base di un incrocio dei dati relativi a tassi di fertilità, di mortalità e sui flussi migratori, parlano poi di un picco di una popolazione di 453 milioni di persone nell’Ue nel 2026, prima di un calo a 420 milioni nel 2100.

Ma il quadro è completato dalle proiezioni che indicano una netta tendenza all’invecchiamento della società europea. La quota di bambini o minorenni sul totale della popolazione è stimata in calo dal 20% dell’inizio del 2022 al 18% del 2100. Stesso discorso per la popolazione in età lavorativa (tra i 19 e i 64 anni), in calo dal 59% del 2022 al 50% nel 2100. In contrasto la quota di anziani sul totale della popolazione, prevista in aumento: dal 15 al 17% per la fascia d’età fino tra i 65 e i 79 anni e addirittura da 6 al 15 per cento per gli over 80.