Madri vicine ai figli che la guerra ha reso ancora più lontani

 Madri vicine ai figli che la  guerra  ha reso  ancora  più lontani  ODS-010
06 maggio 2023

La sala è luminosa, apre sulla cucina e sul balcone. Olena e io ci siamo date appuntamento nell’appartamento dove lavora da vent’anni, la padrona di casa, giovane e sottile, ci offre un caffè e poi si sposta di lato, due passi indietro per fare spazio a Olena. Più tardi ci raggiungerà Sofiya, anche lei ucraina, anche lei arrivata in Italia molti anni fa con un visto turistico.

L’arrivo degli ucraini, e soprattutto delle ucraine, a partire dagli anni Novanta, ha portato qui da noi intelligenze, energie, elasticità, e, se ci fossimo messi in ascolto allora, ci avrebbe permesso di capire dinamiche della storia dell’est Europa che oggi ci sarebbero necessarie.

Olena è una donna bruna dalla presenza forte, ma già quando ci sediamo sul divano e le chiedo del suo primo viaggio, la prima partenza dall’Ucraina, le si arrossano gli occhi. Aveva trentasei anni quand’è partita, mi dice, un bambino di cinque anni le era morto, lasciava a casa due ragazzi, uno di tredici e uno di sedici anni. Mi racconta con fatica lasciando sottotraccia la guerra che affiora da ogni breccia del discorso. «Sono venuta in Italia perché qui avevo delle amiche». In Ucraina abitava vicino alla frontiera della Polonia, dove la sua famiglia vive ancora. Il marito tagliava la legna, ma poi il suo lavoro non bastava e lei è venuta qui.

«Mantengo figli, nipoti e tutti gli altri». Solleva gli occhi. «Ora, con la guerra, il lavoro non si trova. Da noi, al confine della Polonia, è meno pericoloso. Ma i prezzi sono salati, non ci sono gli stipendi, le pensioni arrivano sì e no a 70 euro». Le persone anziane non accendono la luce, stanno, giorno e notte, al buio. Olena ha il tono della voce caldo, parla con mitezza: «Ora che c’è la guerra, arrivano i soldati per arruolare i ragazzi». A suo figlio non è stato chiesto di andare, perché ha i bambini piccoli. «Gli hanno domandato se sarà pronto in caso estremo e lui ha scritto: “Sì”. Ma ci sono ragazzi che si nascondono. Gli arruolamenti vanno avanti da nove anni, e ora sono sempre di più».

In Ucraina Olena faceva l’operaia, aveva un buon lavoro in una cristalleria: «Poi la fabbrica ha chiuso». Dopo il suo arrivo, per cinque anni, prima di avere il permesso di soggiorno, è rimasta lontana dai ragazzi. Le domando quante volte sente i figli durante la settimana, è una domanda che mi faccio spesso. La lontananza dai figli, nella vita quotidiana di una donna che lavora qui, cosa significa? Nella percezione dei bambini, dei ragazzi, che cos’è questa perdita? «Li sento tutti i giorni, a tutte le ore», mi risponde Olena, mutando di colpo la mia idea di lontananza in un’altra, di sollecitudine costante anche se a distanza. Una continua presenza bidimensionale, una voce che non lascia mai soli. «Prima ricaricavo continuamente il cellulare, ora sto continuamente su WhatsApp». È un’esperienza comune, potremmo dire addirittura comunitaria.

Ha bussato Sofiya, sottile, sorridente, affilata. Le facciamo posto sul divano, indossa i pantaloni e una giacca di un colore neutro, i capelli sono più chiari di quelli di Olena.

«Sono arrivata in Italia nel 1999. Avevo due figlie e un figlio a carico. Erano a Leopoli con le zie. Quando il bambino ha un raffreddore, ti si spacca il cuore». Sorride, guarda Olena, «Vodafone
si è arricchita con noi». Anche lei è arrivata con un visto turistico, ha trovato casa e lavoro attraverso la rete delle amiche
che erano già qui. «Per tre anni sono stata senza documenti, e perciò ero bloccata, non potevo partire, poi finalmente in regola. Ora torno per un mese o due, anche di più».

Anche Olena torna a casa una volta l’anno e resta un mese; anche due volte l’anno in aereo o in autobus. «Partiamo di domenica da Rebibbia e arriviamo lunedì». Dopo gli anni della lontananza concreta e della prossimità virtuale, ci sono gli anni con un ritmo: undici mesi virtuali, uno o due di vicinanza concreta, per rifarsi.

Sofiya in Ucraina faceva l’insegnante. «Ho insegnato alle elementari e poi ho lavorato in biblioteca. Mia figlia maggiore ha studiato medicina a Kiev, stomatologia. Mio figlio fa il meccanico, monta e smonta». Fa il meccanico come uno dei figli di Olena. «Mio figlio sta vicino Leopoli, nei pressi del confine, perciò come volontario va a prendere e porta i pacchi con gli aiuti, ha comprato anche una macchina per le forze armate. La mia secondogenita è responsabile di un supermercato. Stanno tutti e tre lì. Il mio posto è qui». Lo dice come se anche la sua, qui in Italia, fosse una specie di trincea. «Mia figlia grande ora fa la dottoressa dell’esercito, sta a 9 km dal fronte. La più piccola ha lasciato tutto ed è andata a guardare i suoi figli». Mi guarda, nei suoi occhi c’è intesa e sfida: «Pensa al dolore di una persona che ha la propria figlia lì. I russi fanno delle cose atroci, una collega di mia figlia ha raccontato di cose che ha visto...». Ora il discorso sulla guerra non si affaccia più dalle brecce, ma dilaga.

Sofiya ha uno sguardo acuminato, la voce ferma: «Mi ha detto mia figlia: “di due persone non ho raccolto che due pezzi”. Mia figlia non tornerà più con la mente com’era. I suoi figli hanno sette e cinque anni e lo sanno che la mamma cura i soldati».

Olena si volta verso di noi, scuote la testa: «Non ci aspettavamo una guerra così. Il 13 febbraio del 2022 è nata mia nipote e dal 24 febbraio c’è la guerra. Quando suona la sirena si nascondono tutti nei rifugi. Passo la mattina a non pensare, poi dormo, mi alzo, vado a dormire, senza pensare». Sofiya contrae la fronte. Nemmeno lei pensava si arrivasse a questo: «Pensavo che si trattasse solo di un’esibizione di muscoli».

Anche durante quest’anno di guerra, Sofiya e Olena continuano a fare su e giù dall’Ucraina, alle donne è permesso, gli uomini invece non possono uscire dal paese.

Chiedo com’è la vita quotidiana, in Ucraina. «Stai al negozio», Sofiya solleva le spalle, «al supermercato, i bambini vanno a scuola. Quando suona la sirena, suonano anche le campane della chiesa, tutto chiude e bisogna scappare nei rifugi. Quando l’anno scorso, a marzo, i bambini sono venuti qui e hanno sentito suonare le campane della chiesa si sono messi i giubbotti e volevano scappare». Si erano già abituati alle consuetudini della vita di guerra.

«La vita in Ucraina è molto cara, i prezzi sono altissimi, superiori a qui. Noi siamo al confine della Polonia, vicino Leopoli, da noi c’è un poligono dove si addestrano i soldati. Ho un’amica che abita a Domodossola, sua figlia di ventitré anni studiava da pasticcera, ha lasciato tutto e si è arruolata, ora è in Inghilterra ad addestrarsi. Mio fratello ha combattuto nel Donbass. Ha avuto un problema alle gambe ed è stato congedato. Solo da poco ha cominciato un po’ a parlare. Mi ha raccontato che i russi camminavano su un piccolo ponte e lui gli sparava. Gli ho chiesto: “Ma tu ti senti assassino?”». Chissà con che coraggio glielo ha chiesto. Lui le ha risposto di no. «Mio fratello vive vicino a Kiev. Lì, nel suo paese, i russi hanno ucciso un ragazzo senza motivo, un ragazzo che aveva un ritardo mentale. Ormai quando sento la lingua russa mi viene da rimettere».

Olena, mentre l’ascolta, guarda davanti a sé: «Ho degli amici in Siberia, ma ormai non ci sentiamo più». Sofiya piega il viso di tre quarti: «Ho un cugino a San Pietroburgo, lui capisce la situazione vera».

Sento il bisogno di dare concretezza all’imma-ginazione della vita là, chiedo a Sofiya di descri-vermi la loro casa vicino a Leopoli. Lei si mette a scorrere il telefono, la trova, mi mostra una grande villa nuovissima, due piani con il tetto spiovente e un giardino. Anche la casa di Olena è una villa, molto simile a quella di Sofiya, giusto i colori dell’intonaco sono diversi, in una più arancio, nell’altra più rosato. Sullo schermo del cellulare mi mostrano le foto dei figli e dei nipoti, ragazzi, ragazze, bambini e bambini in posa, foto di momenti felici, inquadrature perfette, vestiti eleganti, compostezza, sorrisi luminosi. Un mondo di bellezza immobile, di pace immortalata sullo schermo: tutta quella immobile bellezza e pace sembra che prema per uscire da lì, per mettersi in movimento, per entrare nel nostro agitato mondo condiviso continuando a restare pace.

Olena, Sofiya e Carola Susani