Dalla cella alla strada: l’alternativa possibile

 Dalla cella  alla strada: l’alternativa possibile  ODS-010
06 maggio 2023

In inverno è più semplice parlare di persone senza dimora. Il freddo ci porta a vivere una maggiore empatia verso chi non ha una casa. Arrivata la primavera, diminuiscono le risorse e cala l’interesse verso un fenomeno che, per centinaia di persone, comporta anche la morte, come riportano i dati dell’osservatorio fio. psd , «La strage invisibile». Nel resto dell’anno il problema si sposta dalla sopravvivenza al decoro urbano e, quindi, al “degrado” associato alla vita di strada, un termine in grado di annullare ogni capacità di “mettersi nei panni dell’altro”.

Questo cambiamento ciclico favorisce il fiorire di una serie di misure avverse, anti-alcol, anti-bivacco, di architettura ostile, fino ai daspo urbani, attivate secondo una logica del tutto differente da quella invernale, poiché, da quel momento in poi, è “legittimo” ritenere la persona responsabile della propria condizione marginale di vita, senza riconoscere le cause legate ai processi sociali di impoverimento. Il tema casa e il diritto all’abitare, che tutti additano come nodo principale della questione, sono sfumati o spariscono.

Le cose poi si complicano quando si finisce in strada a partire da una istituzione scomoda come il carcere. I dati a disposizione sono pochi, ma non del tutto assenti. Ad esempio, possiamo dire che non conoscevamo il luogo di residenza di 5.240 persone detenute su 56.196 presenti al 31 dicembre 2022; non tutte costoro sono anche senza dimora, ma nemmeno quelle residenti sono necessariamente con dimora (si può vivere un’esperienza di vita in strada anche con una residenza). Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà ha messo in luce come, nel mese di dicembre 2019, quattro degli otto suicidi in carcere furono di persone senza dimora. Questi sono solo alcuni degli esempi in grado di rappresentare una popolazione detenuta sempre più povera e disperata.

Il fenomeno è tanto ampio da aver spinto il Ministero della Giustizia ad attivare nel 2020, durante il primo lockdown, un progetto di accesso alle misure alternative a livello nazionale, rivolto a chi non avrebbe potuto accedervi per mancanza del requisito della residenza.

Attualmente i servizi pronti ad affrontare questa sfida sono pochi. Ipotizzare servizi dedicati a persone senza dimora, con tutto quello che comporta, con la possibilità di ospitare chi deve scontare una pena in detenzione domiciliare, significa farsi carico di una complessità ampia, spesso non compresa dagli stessi attori istituzionali coinvolti. Non si tratta solo di uscire dal carcere, ma di restituire diversi gradi di dignità erosa.

Uno dei limiti più grossi è il contrapporsi di pensieri molto lontani tra loro, divisi tra premialità (trattamento favorevole a fronte di un impegno nella direzione richiesta dall’autorità) e riconoscimento di diritti perduti da tempo, che non può essere ridotto a beneficio, a meno di perdere senso (non si può guadagnare un diritto universale, ancor più quando negato). Alcune realtà del terzo settore stanno tentando di percorrere queste strade piene di ostacoli e incomprensioni, anche a causa dello stigma di coloro a cui tentano di rivolgersi. Un segno di civiltà da conoscere e sostenere maggiormente.

di Luca Decembrotto *

*Comitato Scientifico fio. psd