DONNE CHIESA MONDO

Una teologa nel penitenziario di Nashville che comprende anche il braccio della morte

Leggere Matteo in carcere

The Sermon on the Mount
Carl Bloch, 1890
06 maggio 2023

Prima della pandemia ho insegnato quasi ogni semestre all’istituto di massima sicurezza di Riverbend, un carcere maschile a Nashville, nel Tennessee (Usa), che comprende anche il braccio della morte dello stato (Il Tennessee è tra i tanti stati degli Stati Uniti che eseguono la pena capitale). Portavo con me nel carcere dodici studenti del “mondo libero” che frequentavano la scuola di teologia della Vanderbilt University, e facevamo lezione insieme a dodici studenti “interni”. Vorrei raccontare qui tre osservazioni profonde fatte dagli studenti interni mentre esaminavamo i vangeli. Ho il loro permesso di riferire le loro riflessioni, ma senza citare i loro nomi. Non vogliono che, pubblicati, possano causare dolore alle famiglie delle loro vittime. Tuttavia, come vedremo, il loro anonimato tocca anche i testi evangelici.

La prima è stata fatta quando, nel leggere il Discorso delle Montagna (vangelo secondo Matteo 5-7), siamo arrivati al passo tradizionalmente noto come Preghiera del Signore, Padre nostro, o, in latino, Pater noster. La preghiera appare anche nel vangelo di Luca. Tuttavia, la formulazione differisce nei due testi. Il greco di Matteo 6, 12 dice «e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Il greco di Luca 11, 4, invece, dice «e perdonaci i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore». Luca fa intendere che “debito” è un’altra parola per dire “peccato”.

Al tempo di Gesù, gli ebrei usavano diverse metafore per descrivere il peccato: il peccato poteva essere un peso o un fardello che bisognava levare, una macchia che andava tolta o un debito che occorreva pagare. In aramaico, la lingua parlata da Gesù, la parola hovah poteva significare sia “debito” sia “peccato”; era il contesto ad aiutare chi parlava e leggeva aramaico a comprenderne l’accezione. Ma in greco, la lingua dei vangeli, la parola usata per “debito” si riferiva a un debito monetario; non aveva la connotazione di “peccato”. Che cosa intendeva dunque Gesù quando, in aramaico, insegnava questa preghiera sul perdono: parlava di denaro, di un debito che una persona aveva con un’altra, o parlava più in generale del peccato?

Analizzando questa preghiera, il mio primo pensiero era stato che Gesù intendesse “rimetti a noi i nostri debiti”, come suggerisce Matteo 6, 12. Ritenevo che auspicasse la giustizia economica, l’anno giubilare, quando tutti i debiti vengono rimessi. Come afferma Abacuc 2, 6: «Guai a chi accumula ciò che non è suo, - e fino a quando? - e si carica di pegni!». Poi pensai che Luca aveva voluto chiarire ai lettori che la preghiera non riguardava il denaro, il debito monetario, bensì il peccato, il peccato di non manifestare amore e compassione.

A Riverbend, quando siamo arrivati a questa preghiera, ho suggerito che Luca aveva spostato il punto focale dal denaro al peccato. Ho suggerito anche che è più facile perdonare un peccato che un debito. «Se commetti un peccato contro di me – ho detto alla classe – posso perdonarti, ma se mi devi 100.000 dollari e io devo affrontare grandi spese, il denaro mi serve». Uno degli studenti interni – un uomo silenzioso condannato a diversi ergastoli per omicidio – allora ha parlato. «Signora – mi ha detto – lei non sa di che cosa sta parlando».

Ha quindi raccontato come, seguendo un programma chiamato mediazione tra vittime e autore del reato, incontrava regolarmente i familiari delle persone che aveva ucciso per una questione di droga finita male. La famiglia aveva iniziato il processo provando odio per il mio studente, lo studente invece con senso di vergogna e di colpa. Più s’incontravano, più cambiavano i sentimenti. Alla fine, i familiari gli avevano detto «ti perdoniamo».

«Signora – mi ha detto – lei non capisce il peccato, e quindi non capisce il perdono. Il perdono che mi hanno offerto vale molto di più di qualsiasi debito economico».

Che cosa avrà insegnato Gesù? Penso che diceva ai ricchi che erano tra i suoi discepoli: «Da’ a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle» (Matteo 5, 42). Inoltre diceva a tutti i suoi discepoli che, così come Dio era stato misericordioso e li aveva perdonati, anche loro dovevano essere misericordiosi e perdonare gli altri.

Tuttavia, come ha osservato la mia studentessa del “mondo libero” Maria Mayo, a volte non siamo capaci di perdonare. Per alcuni di noi, il dolore è troppo profondo, troppo recente per concedere il perdono, specialmente se chi ci ha feriti non si pente. In questi casi, Maria guarda a Luca 23, 34, dove Gesù prega «Padre, perdonali…». Avrebbe potuto concedere da solo il perdono, ma mentre subisce la tortura della crocifissione, lascia che sia Dio Padre a perdonare. I miei studenti interni hanno detto di trovare confortante questa lettura.

La seconda osservazione è stata fatta quando, proseguendo la lettura del vangelo di Matteo, siamo arrivati al versetto 12, 31, dove Gesù dice ai suoi discepoli: «Qualunque peccato e bestemmia sarà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata». La discussione ha finito col concentrarsi su che cosa potrebbe costituire una tale blasfemia. Uno dei miei studenti interni, un prete cattolico sospeso dal sacerdozio che si trovava in carcere per molestie su minori, ha detto con le lacrime agli occhi che «la bestemmia contro lo Spirito è pensare che Dio non possa amare qualcuno come me. Bestemmiare significa negare l’amore infinito di Dio». Per quanto possa essere orrendo il crimine, l’amore di Dio prevale.

La terza osservazione, invece, è stata fatta quando, arrivati alla morte di Gesù, abbiamo parlato del centurione che aveva proclamato Gesù Figlio di Dio, delle pie donne che lo avevano seguito dalla Galilea fino alla croce e di Giuseppe di Arimatea, che aveva avuto il coraggio di recarsi da Ponzio Pilato, chiedere il corpo di un uomo condannato e deporlo nel proprio sepolcro. Uno dei miei studenti interni ha domandato: «Chi è rimasto con gli altri due uomini crocifissi quel giorno insieme a Gesù? Chi ha calato i loro corpi dalla croce e ha dato loro una vera sepoltura? Chi ha pianto per loro?».

E le domande dello studente interno sono proseguite: «Chi sarà con noi quando moriremo? Chi chiederà i nostri corpi? Chi piangerà per noi?». Gli studenti interni hanno trovato conforto nell’amore infinito di Dio. Allo stesso tempo, hanno lanciato una sfida a me e ai miei studenti di teologia, che si preparavano a diventare ministri ed educatori religiosi: «Ci ricorderete? Direte alle vostre congregazioni di ricordarci?».

I miei studenti interni sono colpevoli di omicidio, stupro, tortura e abusi su minori. Sono anche miei amici. Non penso a loro come a “quell’assassino” o “quello stupratore”. Penso a loro con i loro nomi, e li conosco per quello che dicono durante la lezione e su quello che scrivono nei loro elaborati. Al tempo stesso penso alle loro vittime. Non spetta a me perdonarli per ciò che hanno fatto: il perdono è prerogativa delle loro vittime e di Dio. Ma non spetta nemmeno a me condannarli, poiché anche loro sono fatti a immagine e somiglianza di Dio.

Il cielo non voglia che loro - o noi – siano conosciuti per le cose peggiori commesse. E il cielo non voglia che poniamo dei limiti all’amore di Dio.

di Ami-Jill Levine