Il viaggio del Pontefice in Ungheria
L’incontro con i poveri e con i rifugiati

Capaci di parlare con la vita il linguaggio della carità

 Capaci di parlare con la vita  il linguaggio della carità  QUO-100
29 aprile 2023

Vera fede è quella che scomoda e fa uscire incontro agli altri


Conclusa la visita all’istituto Beato László Batthyány-Strattmann, nella mattina di sabato 29 aprile, il Papa ha raggiunto la chiesa di Santa Elisabetta d’Ungheria, a Budapest, dove si è svolto l’incontro con i poveri e i rifugiati. Questo è il testo del discorso pronunciato dal Pontefice.

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Sono felice di essere qui in mezzo a voi. Grazie, Mons. Antal, per le sue parole di benvenuto e grazie per aver ricordato il generoso servizio che la Chiesa ungherese svolge per e con i poveri. I poveri e i bisognosi — non dimentichiamolo mai — sono al cuore del Vangelo: Gesù, infatti, è venuto, «a portare ai poveri il lieto annuncio» (Lc 4, 18). Essi, allora, ci indicano una sfida appassionante, perché la fede che professiamo non sia prigioniera di un culto distante dalla vita e non diventi preda di una sorta di “egoismo spirituale”, cioè di una spiritualità che mi costruisco a misura della mia tranquillità interiore e della mia soddisfazione. Vera fede, invece, è quella che scomoda, che rischia, che fa uscire incontro ai poveri e rende capaci di parlare con la vita il linguaggio della carità. Come afferma San Paolo, possiamo parlare tante lingue, possedere sapienza e ricchezze, ma se non abbiamo la carità non abbiamo niente e non siamo niente (cfr. 1 Cor 13, 1-13).

Il linguaggio della carità. È stata la lingua parlata da Santa Elisabetta, verso la quale questo popolo nutre grande devozione e affetto. Arrivando stamani, ho visto nella piazza la sua statua, con il basamento che la raffigura mentre riceve il cordone dell’ordine francescano e, contemporaneamente, dona l’acqua per dissetare un povero. È una bella immagine della fede: chi “si lega a Dio”, come fece San Francesco d’Assisi a cui Elisabetta si è ispirata, si apre alla carità verso il povero, perché «se uno dice: “Io amo Dio” e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4, 20).  Santa Elisabetta, figlia di re, era cresciuta nell’agiatezza di una vita di corte, in un ambiente lussuoso e privilegiato; eppure, toccata e trasformata dall’incontro con Cristo, ben presto sentì un rigetto verso le ricchezze e le vanità del mondo, avvertendo il desiderio di spogliarsene e di prendersi cura di chi era nel bisogno. Così, non solo spese i suoi averi, ma anche la sua vita a favore degli ultimi, dei lebbrosi, dei malati fino a curarli personalmente e a portarli sulle proprie spalle. Ecco il linguaggio della carità.

Ce ne ha parlato anche Brigitta, che ringrazio per la sua testimonianza. Tante privazioni, tanta sofferenza, tanto duro lavoro per cercare di andare avanti e di non far mancare il pane ai suoi figli e, nel momento più drammatico, il Signore le è venuto incontro per soccorrerla. Ma — l’abbiamo ascoltato dalle sue stesse parole — come è intervenuto il Signore? Egli, che ascolta il grido di chi è povero, «rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati» e «rialza chi è caduto» (Sal 146, 7-8), non arriva quasi mai risolvendo dall’alto i nostri problemi, ma si fa vicino con l’abbraccio della sua tenerezza ispirando la compassione di fratelli che se ne accorgono e non restano indifferenti. Brigitta ce l’ha detto: ha potuto sperimentare la vicinanza del Signore grazie alla Chiesa greco-cattolica, a tante persone che si sono prodigate per aiutarla, incoraggiarla, trovarle un lavoro e sostenerla nei bisogni materiali e nel cammino della fede. Questa è la testimonianza che ci è richiesta: la compassione verso tutti, specialmente verso coloro che sono segnati dalla povertà, dalla malattia e dal dolore. Compassione che vuol dire “patire con”. Abbiamo bisogno di una Chiesa che parli fluentemente il linguaggio della carità, idioma universale che tutti ascoltano e comprendono, anche i più lontani, anche coloro che non credono.

E a questo proposito esprimo la mia gratitudine alla Chiesa ungherese per l’impegno profuso nella carità, un impegno capillare: avete creato una rete che collega tanti operatori pastorali, tanti volontari, le Caritas parrocchiali e diocesane, ma anche gruppi di preghiera, comunità di credenti, organizzazioni appartenenti ad altre Confessioni ma unite in quella comunione ecumenica che sgorga proprio dalla carità. E grazie per come avete accolto — non solo con generosità ma pure con entusiasmo — tanti profughi provenienti dall’Ucraina. Ho ascoltato con commozione la testimonianza di Oleg e della sua famiglia; il vostro “viaggio verso il futuro” — un futuro diverso, lontano dagli orrori della guerra — è iniziato in realtà con un “viaggio nella memoria”, perché Oleg ha ricordato la calorosa accoglienza ricevuta in Ungheria anni fa, quando venne a lavorare come cuoco. La memoria di quella esperienza lo ha incoraggiato a partire con la sua famiglia e a venire qui a Budapest, dove ha trovato generosa ospitalità. Il ricordo dell’amore ricevuto riaccende la speranza, incoraggia a intraprendere nuovi percorsi di vita. Anche nel dolore e nella sofferenza, infatti, si ritrova il coraggio di andare avanti quando si è ricevuto il balsamo dell’amore: e questa è la forza che aiuta a credere che non è tutto perduto e che un futuro diverso è possibile. L’amore che Gesù ci dona e che ci comanda di vivere contribuisce allora a estirpare dalla società, dalle città e dai luoghi in cui viviamo, i mali dell’indifferenza — è una peste l’indifferenza! — e dell’egoismo, e riaccende la speranza di un’umanità nuova, più giusta e fraterna, dove tutti possano sentirsi a casa.

Tante persone, purtroppo, anche qui, sono letteralmente senza casa: molte sorelle e fratelli segnati dalla fragilità — soli, con vari disagi fisici e mentali, distrutti dal veleno della droga, usciti di prigione o abbandonati perché anziani — sono colpiti da gravi forme di povertà materiale, culturale e spirituale, e non hanno un tetto e una casa da abitare. Zoltán e sua moglie Anna ci hanno offerto la loro testimonianza su questa grande piaga: grazie per le vostre parole. E grazie per aver accolto quella mozione dello Spirito Santo che vi ha portato, con coraggio e generosità, a costruire un centro per accogliere persone senza fissa dimora. Mi ha colpito sentire che, insieme ai bisogni materiali, prestate attenzione alla storia e alla dignità ferita delle persone, prendendovi cura della loro solitudine, della loro fatica di sentirsi amate e benvenute al mondo. Anna ci ha detto che «è Gesù, la Parola vivente, che guarisce i loro cuori e le loro relazioni, perché la persona si ricostruisce dall’interno»; rinasce, cioè, quando sperimenta che agli occhi di Dio è amata e benedetta. Questo vale per tutta la Chiesa: non basta dare il pane che sfama lo stomaco, c’è bisogno di nutrire il cuore delle persone! La carità non è una semplice assistenza materiale e sociale, ma si preoccupa della persona intera e desidera rimetterla in piedi con l’amore di Gesù: un amore che aiuta a riacquistare bellezza e dignità.

Fare la carità significa avere il coraggio di guardare negli occhi. Tu non puoi aiutare un altro guardando da un’altra parte. Per fare la carità ci vuole il coraggio di toccare: tu non puoi buttare l’elemosina a distanza senza toccare. Toccare e guardare. E così tu toccando e guardando incominci un cammino, un cammino con quella persona bisognosa, che ti farà capire quanto bisognoso, quanto bisognosa sei tu dello sguardo e della mano del Signore.

Fratelli e sorelle, vi incoraggio a parlare sempre il linguaggio della carità. La statua in questa piazza raffigura il miracolo più famoso di santa Elisabetta: si racconta che il Signore una volta trasformò in rose il pane che portava ai bisognosi. È così anche per voi: quando vi impegnate a portare il pane agli affamati, il Signore fa fiorire la gioia e profuma la vostra esistenza con l’amore che donate. Fratelli e sorelle, vi auguro di portare sempre il profumo della carità nella Chiesa e nel vostro Paese. E vi chiedo, per favore, di continuare a pregare per me.


Il saluto del vescovo Spányi

Sempre dalla parte dei più deboli


«Con migliaia di volontari» Caritas Ungheria «assiste gli anziani e malati, aiuta le famiglie bisognose e i disabili, fa la sua parte per curare i tossicodipendenti, aiuta i senzatetto, le minoranze svantaggiate, sostiene i cristiani perseguitati e i rifugiati e aiuta le vittime di disastri umanitari». Ecco il quadro del servizio concreto svolto dall’organismo caritativo magiaro che il presidente monsignor Antal Spányi, vescovo di Székesfehérvár, ha presentato al Papa all’inizio dell’incontro.

«È un momento privilegiato di grazia —  ha detto il vescovo — incontrarsi in questa chiesa, costruita in onore di santa Elisabetta d’Ungheria, patrona della carità, con i poveri e gli afflitti, con coloro che hanno bisogno dell’amore degli altri, e con coloro che li sostengono con la carità cristiana, abbracciati qui dall’amore di Cristo».

«Il vescovo Ottokár Prohászka — ha spiegato — esortò la Chiesa ungherese a impegnarsi responsabilmente ed efficacemente verso i bisognosi già all’inizio del xx secolo e nel 1931 fu fondata la Caritas, che continuò il suo lavoro con grande vigore fino al 1950, quando l’organizzazione fu bandita dal regime comunista. Ma il lavoro continuò quasi clandestinamente nelle parrocchie fino al 1991, quando la Caritas Hungarica fu ufficialmente rilanciata».

Oggi, ha concluso, l’apostolato della carità «viene svolto nelle parrocchie attraverso il servizio dei volontari e in contesti organizzati e professionali, ovunque sia necessario, anche in altre parti del mondo per aiutare nei luoghi di disastri umanitari o naturali».