Hic sunt leones
Il continente è ricco di fonti energetiche ma milioni di persone non hanno elettricità

Africa
al buio o alla luce?

 Africa  al buio o alla luce?   QUO-099
28 aprile 2023

L’accesso a sistemi di approvvigionamento energetico affidabili e di qualità è vitale per lo sviluppo economico di qualsiasi Paese. Questo vale anche per quelli africani. Stiamo parlando della conditio sine qua non per raggiungere la quasi totalità degli obiettivi di sviluppo sostenibile auspicati dalle Nazioni Unite (Sdg).

A livello globale, secondo i dati raccolti dalla Banca mondiale (Bm), 733 milioni di persone, pari a circa il 9,1 per cento della popolazione mondiale, non hanno accesso all’elettricità. Nella sola Africa subsahariana, 600 milioni di persone, pari a circa il 53 per cento della popolazione della macroregione, vivono senza accesso all’elettricità. Altre centinaia di milioni hanno solo elettricità limitata o inaffidabile.

In considerazione di quanto sta avvenendo a livello globale, con particolare riferimento alla crisi russo-ucraina, l’impennata dei prezzi delle materie prime (energetiche e alimentari), unitamente agli stress prodotti dalla speculazione finanziaria, sono tutti fattori che hanno penalizzato i servizi pubblici, aumentando i rischi di blackout e razionamento per le imprese e le famiglie. Questi problemi stanno contribuendo in modo significativo all’aumento della povertà estrema nell’Africa subsahariana, con il risultato, ad esempio, che il numero di persone colpite dalle crisi alimentari è addirittura quadruplicato in alcune aree del continente. Se a tutto questo sommiamo gli effetti negativi dei cambiamenti climatici che penalizzano fortemente le popolazioni e ogni genere d’infrastruttura, diventa assai arduo ragionare in termini di industrializzazione, produttività, crescita economica e sviluppo umano.

Viene pertanto spontaneo domandarsi: come potrà l’Africa, e in particolar modo la macroregione subsahariana, equilibrare i legittimi bisogni interni con le invasive pressioni dei mercati internazionali, sia in termini di produzione che dal punto di vista politico? Come sarà possibile riconciliare i processi di industrializzazione con le necessarie azioni di contrasto agli effetti del surriscaldamento globale? Come poi contrastare quella fenomenologia spesso ricorrente che vede il continente come terreno di contesa, politico-economico-militare, tra i grandi attori internazionali? I quesiti sono legittimi se si considera che prima dell’attuale congiuntura, quando ancora nessuno avrebbe mai immaginato che scoppiasse una pandemia e ancor peggio un conflitto come quello scatenato da Mosca in terra ucraina, le economie avanzate spingevano a spron battuto lungo il solco della sostenibilità e quindi verso un uso più massiccio ed estensivo delle fonti energetiche pulite.

I governi africani, in linea di principio, erano d’accordo sottolineando però il fatto, ad esempio, che mentre in Europa il problema era quello di passare da sistemi inquinanti a quelli capaci di generare energia pulita, in Africa la priorità era e rimane tuttora quella di garantire energia a chi ne è totalmente sprovvisto. Se si prescinde da quei Paesi africani dove, in questi anni, sono stati registrati progressi significativi come il Kenya, il Senegal, il Rwanda, il Ghana e l’Etiopia, la situazione resta difficile, se non addirittura emergenziale in tanti Paesi della macroregione subsahariana. La guerra in Ucraina ha però sparigliato le carte generando il timore, soprattutto in Europa, di rimanere a secco di energia sospendendo, almeno temporaneamente, la promozione delle rinnovabili. Un riposizionamento dettato dalla necessità di gas e petrolio, con il risultato che si è tornati a chiedere ai governi africani di intensificare i processi estrattivi di idrocarburi. Un indirizzo, alla prova dei fatti, in netto contrasto con i proclami ecologici di un tempo.

L’incongruenza è evidente: l’Africa è ricca di commodity energetiche che vengono esportate e puntualmente viene scaricata dagli attori internazionali quando chiede quegli aiuti che le garantirebbero la sostenibilità. Le scuse addotte da chi in effetti potrebbe, per così dire, “mettere mano al portafoglio”, sono quelle di sempre e rispondono al diktat della finanza speculativa o, in termini più generali, alle dinamiche del libero mercato, dimenticando l’importanza della globalizzazione dei diritti. Per inciso, l’Africa è in assoluto la meno responsabile del global warming.

Secondo il Climate Change Vulnerability Index, su 33 regioni nel mondo che presentano un rischio estremo a causa dei cambiamenti climatici, 27 sono in Africa. Eppure, leggendo i dati dell’Atlante mondiale del carbonio, l’intero continente africano contribuisce solo con il 4-4,5 per cento alle emissioni di gas serra. Basti pensare che l’America, il secondo Paese per emissioni al mondo, ha su tutto il suo territorio un indice di vulnerabilità bassissimo.

Cosa fare dunque? L’Agenzia internazionale per l’energia (Iea), nel suo Africa Energy Outlook dello scorso anno, ha delineato le prospettive energetiche continentali concentrandosi su sfide e priorità, tenendo conto del contesto globale energetico in evoluzione così come sommariamente lo abbiamo descritto. Per la Iea, il possibile Sustainable Africa Scenario (Sas), parte dal presupposto che occorre puntare comunque sulle energie “verdi” evitando di cedere alla tentazione di approfittare della pressante richiesta di idrocarburi da parte dei mercati. Secondo la Iea, è possibile arrivare all’accesso universale ai moderni servizi energetici in Africa entro il 2030 garantendo al tempo stesso il pieno rispetto e la piena attuazione di tutti gli impegni condivisi con il consesso delle nazioni, dettati dall’agenda internazionale sul clima.

Per realizzare questi obiettivi, precisano gli estensori del rapporto, i Paesi africani sono chiamati ad assumere un ruolo guida con strategie e politiche chiare, mentre le istituzioni internazionali, dal canto loro, dovranno rafforzare il loro impegno per aumentare significativamente i livelli di sostegno. Questo in sostanza significa passare dalla retorica di circostanza a veri e propri finanziamenti ricercando soluzioni innovative e vantaggiose. Anche perché, come ha dichiarato recentemente Cristina Duarte, capoverdiana, consigliera speciale del segretario generale dell’Onu per il continente africano: «L’Africa ha abbondanti risorse finanziarie ma le perde, anche nei flussi illeciti di denaro in uscita». Col risultato che «questo paradosso ne alimenta un altro: il continente ha grandi risorse energetiche ma è piuttosto al buio», con 600 milioni di persone, come abbiamo già detto, prive di accesso all’energia elettrica e un miliardo senza fonti pulite per gli usi domestici. Considerando che il settore agricolo consuma solo il 2 dell’energia totale, la transizione energetica per l’Africa deve necessariamente partire da ben altri presupposti rispetto ai Paesi occidentali, benché la traiettoria debba essere per tutti, ricchi e poveri «rendere green» il nostro pianeta.

Una cosa è certa: guardando al futuro, stando alle proiezioni della Iea, dovrà essere l’elettricità l’elemento chiave dei nuovi sistemi energetici africani, alimentati da fonti rinnovabili. L’Africa ospita attualmente il 60 per cento delle migliori risorse solari a livello globale, ma solo l’un per cento della capacità solare fotovoltaica installata. Il solare fotovoltaico — che già oggi viene considerato come fonte energetica più economica in molte parti dell’Africa — se arriveranno gli investimenti, nelle prospettive disegnate dal Sas, potrebbe superare tutte le altre fonti africane entro il 2030. Un piano Marshall o Mattei che dir si voglia per l’Africa non può prescindere da queste considerazioni. Altrimenti sarà inutile dire che «intendiamo aiutare gli africani a casa loro».

di Giulio Albanese