«Presso al Danubio» di Attila József

Canto corale del fiume

 Canto corale del fiume    QUO-098
27 aprile 2023

Un fiume che, poco a poco, diventa un’infinita sequenza di volti e di voci; il canto corale di un intero popolo. Ma anche il grido di un “io”, della voce narrante, il poeta Attila József (1905-1937) la traduzione di un immenso, smisurato bisogno di essere amato che ha bisogno di trovare immagini e parole per esprimersi. Un grido che, in Italia, possiamo ascoltare grazie alla mediazione del poeta italo-ungherese Tomaso Kemeny.

«Stavo seduto sotto lo scalo sulla prima pietra — scrive József nella sua dichiarazione d’amore in versi al fiume che attraversa Budapest — guardavo come naviga via la scorza d’anguria/Assorto nel mio destino avvertivo appena/come ciarla la superficie e tace il profondo/Come se il Danubio fluisse dal mio cuore;/era torbido, saggio, grande./Ogni onda e ogni moto era un sussulto/un tendere e afflosciarsi come i muscoli/quando l’uomo lavora lima batte/fa mattoni di tufo, vanga./Mi cullava anche, con delle favole come mia madre,/lavava tutti i panni sporchi della città». Alla madre, lavandaia, József, in un altro componimento, dedica versi struggenti (a lei che adesso «scioglie il turchinetto nell’acqua del cielo»).

Il fiume e la pioggia si confondono in un unico fotogramma, nella scena fissata nel bronzo dallo scultore László Marton (la foto riportata in pagina). «Cominciava a gocciolare/ma come fosse la stessa cosa, la pioggia smetteva./E tuttavia come chi osserva la pioggia battente/da un anfratto — guardavo il circostante:/un venir giù monotono da parere eterno,/incolore, ciò che si colorava, qua e là, era passato./Il Danubio era un continuo scorrere. E come un bimbo/nel fertile grembo incurante di una madre,/la schiuma giocava buona buona,/ridacchiandomi in faccia./E sulla corrente del tempo vacillava/come lapidi tombali in cimiteri cadenti». Fissando l’acqua, riaffiora il passato, la presenza invisibile degli antenati, l’immenso coro di chi ha vissuto sulle sponde del fiume, fino a risalire alle folle immense che si sono inabissate nei flutti del tempo. «Un attimo, e lì è la totalità del tempo/che centomila avi guardano unitamente a me./Vedo ciò che non hanno veduto perché zappavano/uccidevano abbracciavano, facevano il dovuto./E immersi nella materia loro vedono/(devo confessarlo) ciò che io non vedo./Sapevano l’uno dell’altro cose come gioia e tristezza;/a me il passato, a loro il presente./Scriviamo versi - loro che tengono la mia matita/e io li sento, me ne ricordo». L’io a poco a poco sente di fluire nel “noi”. «Sono il mondo — tutto, che era e ciò che è:/le tante generazioni che vicendevoli si assalgono». Dal Danubio sale la voce di un artista mendicante di vita (Mendicante di bellezza era il titolo della sua prima raccolta di versi), capace di svelare l’incanto delle cose di tutti i giorni; «la grandezza di un poeta — chiosa Kemeny, pensando proprio a József — non è dire cose straordinarie ma dire in modo straordinario cose normali».

di Silvia Guidi