A Parigi il cardinale Semeraro ha presieduto il rito di beatificazione di cinque religiosi uccisi in odio alla fede

Una storia di dolore
che è storia di speranza

 Una storia di dolore che è storia di speranza  QUO-095
24 aprile 2023

Centocinquantadue anni fa, anche allora nel clima delle feste pasquali, cinque religiosi vennero arrestati durante la Comune di Parigi. Il Giovedì santo — era il 6 aprile 1871 — toccò a padre Mathieu Henri Planchat, dell’Istituto di San Vincenzo de’ Paoli; e il 12 aprile, mercoledì di Pasqua, fu la volta dei padri Ladislas Radigue, Polycarpe Tuffier, Marcellin Rouchouze e Frézal Tardieu, della congregazione dei Sacri Cuori di Gesù e Maria e della Perpetua adorazione del Santissimo Sacramento. Vennero uccisi il 26 maggio e fu di venerdì, giorno in cui la pietà cristiana ricorda settimanalmente la morte del Salvatore. Lo ha sottolineato il cardinale Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle cause dei santi, durante la cerimonia di beatificazione dei cinque martiri presieduta — in rappresentanza di Papa Francesco — sabato pomeriggio, 22 aprile, nella chiesa parigina di Saint Sulpice.

All’omelia il porporato ha richiamato le vicende nelle quali «furono coinvolti e divennero vittime, ed evidentemente non loro soltanto, ma tante altre decine di persone, massacrate dalla violenta follia dei rivoluzionari»: vicende che formano una «storia intricata e complessa dove si rimescolano istanze di vario genere, si sovrappongono condizioni antiche e nuove, ideologie sociali e sentimenti irreligiosi, appelli di verità ma anche fiumi di menzogna, al punto da formare una miscela che avvelena l’uomo».

La storia di questi martiri diventa così «un monito anche per l’oggi; nella prospettiva cristiana»; tuttavia, «rimane una storia di speranza», poiché — ha sottolineato il cardinale citando un’omelia di Benedetto xvi del 14 giugno 2008 — «il bene vince e, se a volte può apparire sconfitto dalla sopraffazione e dalla furbizia, in realtà continua a operare nel silenzio e nella discrezione portando frutti nel lungo periodo. Questo è il rinnovamento sociale cristiano, basato sulla trasformazione delle coscienze, sulla formazione morale, sulla preghiera».

Riferendosi al passo liturgico di Luca (24, 13-35), con il racconto dei due discepoli che, «nel loro cammino sulla strada per Emmaus, furono accostati da Gesù risorto e, da ultimo, dopo averlo riconosciuto nello spezzare il pane», il prefetto ha affermato che si tratta di un brano «tra i più belli e suggestivi del Vangelo». Nel suo Gesù Jean Guitton scriveva in proposito che «se fosse necessario rinunciare a tutto il Vangelo per una sola scena in cui esso sia interamente riassunto, non esiterebbe certo a indicare quella dei discepoli di Emmaus».

E tuttavia, quasi in controcanto, il porporato ha citato altre parole evangeliche: «Dopo averlo deriso, lo spogliarono del mantello e gli rimisero le sue vesti, poi lo condussero via per crocifiggerlo. Mentre uscivano, incontrarono un uomo di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a portare la sua croce» (Mt 27, 31-32). Come il cireneo, ha commentato, anche «i nostri martiri hanno portato la croce di Gesù»; ma poi, come Gesù, sono stati «crocifissi» sicché hanno vissuto in prima persona le sue parole: «bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria!».

In questo «corpo», che è la Chiesa, ha aggiunto il prefetto, «anche le storie “dimissionarie”, come quelle dei due che se ne erano partiti via da Gerusalemme, possono trasformarsi in storie “missionarie”», come conclude il racconto: «narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane». E questo «non vale soltanto per loro. Nel racconto evangelico, difatti, rimangono alcune interessanti incognite». Una riguarda «il luogo dell’incontro col Signore, sicché c’è pure chi intende Emmaus come un luogo dello spirito». C’è poi l’anonimato del discepolo, che «cammina insieme con Cleopa e questo è un vuoto che si potrebbe colmare col nome di ciascuno di noi». Ognuno, infatti, quasi «un lector in fabula, può immettersi nella storia evangelica». In qualunque luogo e «in qualsivoglia situazione ci troviamo, possiamo entrare nel racconto e affiancarci a Cleopa; dubitare, lamentarci e da ultimo, insieme con lui, riconoscere il Signore e rallegrarci della sua presenza».

Il cardinale ha ricordato alcune testimonianze raccolte in occasione del processo per la beatificazione e canonizzazione dei cinque martiri, che dicono in quale modo essi hanno affrontato la morte. Nella lettera indirizzata al fratello Eugène, il 23 maggio, il beato Planchat scrive: «Abbiamo potuto confessarci. Il nostro sacrificio è fatto [...]. Non sono triste, te l’assicuro: prego per tutti; pregate per me e per tutti della prigione». Nei primi giorni dello stesso mese il beato Ladislas Radigue scriveva al suo superiore: «Ho provato quanto il Signore è buono e quale aiuto dia a quelli che mette alla prova per la gloria del suo nome. Ho anche capito un po’, dopo averlo gustato, le superabundo gaudio in tribulatione di San Paolo». Simili espressioni, ha aggiunto Semeraro, «si potrebbero citare degli altri beati. Comprendiamo così come pure a loro si possano adattare, nel senso più vero e reale, le parole dell’apostolo: “se siamo stati intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte, lo saremo anche a somiglianza della sua risurrezione” (Rm 6, 5)».

«Guardando all’esempio dei beati martiri — ha concluso il prefetto — e fiduciosi nella loro intercessione presso il trono dell’Agnello, ciascuno di noi può pregare, magari avendo in prestito le parole dei due di Emmaus secondo la parafrasi che ne fece J. S. Bach in una sua famosa cantata: “Resta con noi, Signore, Gesù Cristo, perché è scesa la sera. La tua Parola divina, luce splendente, non smetta mai di illuminarci. Fa’ che la luce della tua Parola risplenda su di noi e ci conservi a te fedeli”».