Nella Festa della Liberazione l’omaggio di Mattarella a due sacerdoti martiri

Con il popolo fino alla fine

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24 aprile 2023

Fin dai primi giorni dopo l’elezione alla Cattedra di Pietro, Francesco ha esortato vescovi e sacerdoti ad essere pastori in mezzo al popolo. Pastori «con l’odore delle pecore», per citare una delle definizioni più efficaci trovate dal Pontefice in questo decennio. Esortazione costante nel suo Magistero, ripetuta in tante occasioni, ed in particolare negli incontri con il clero della sua diocesi così come nei suoi viaggi apostolici internazionali che gli hanno offerto la possibilità di incontrare la Chiesa di ben sessanta Paesi. Parlando spesso a braccio — dunque da cuore a cuore — il Papa ha sottolineato la bellezza dell’essere sacerdoti. Uomini che, nella sequela del Signore, si fanno servitori disinteressati del suo popolo, rappresentanti di una Chiesa “con il grembiule” come amava dire don Tonino Bello, di cui proprio in questi giorni abbiamo ricordato il trentesimo della morte.

Così come non c’è pastore senza gregge, ci ricorda Francesco, non c’è sacerdote senza popolo. Il sacerdote lo è per il popolo intero non solo per una porzione, per la “sua” comunità di fedeli. Allo stesso modo in cui un buon padre ama tutti i figli, anche (e forse soprattutto) quello prodigo. Cristo è venuto per tutti, non solo per i “suoi”. Ecco perché il Papa sprona costantemente i sacerdoti ad essere protagonisti di una “Chiesa in uscita”, pronti a sopportare fatiche, incomprensioni e perfino ingiustizie per annunciare la Parola che salva e a spargere il balsamo della misericordia sulle tante ferite aperte della nostra umanità. E a farlo, qualora necessario, anche a costo della vita.

Sacerdoti così furono senza dubbio don Giuseppe Bernardi e don Mario Ghibaudo, uccisi il 19 settembre 1943 a Boves, in provincia di Cuneo, in una delle prime stragi perpetrate dai nazifascisti dopo l’armistizio con gli Alleati. I due sacerdoti, proclamati beati il 16 ottobre dell’anno scorso, rimasero con il loro popolo nell’ora più buia e non si risparmiarono pur di salvare il maggior numero di vite umane possibili. In ore terribili, gravide di morte e sofferenza, i due preti — don Ghibaudo aveva appena 23 anni ed era stato ordinato da soli tre mesi — furono un faro di luce e un approdo sicuro per tanti. Le testimonianze raccolte per la causa di beatificazione restituiscono tutto l’amore di questi due pastori per le proprie pecore. Si fecero mediatori tra il comando tedesco e i partigiani, aiutarono le persone più deboli a fuggire, pregarono e benedissero quanti si affidavano a loro. E lo fecero senza alimentare spirito di odio verso gli aggressori nazisti. Quegli stessi aggressori che, in quel tragico 19 settembre di 80 anni fa, li uccisero entrambi assieme ad altri 22 civili inermi. Significativamente, il presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, concluderà domani proprio a Boves nella chiesa parrocchiale — dove sono custodite le spoglie dei due sacerdoti martiri — la sua visita in provincia di Cuneo in occasione della Festa della Liberazione. Una giornata che il capo dello Stato inizierà con la tradizionale deposizione di una corona d’alloro all’Altare della Patria prima di trasferirsi nel cuneese, dove trascorrerà buona parte della giornata. La visita alla parrocchia di Boves manifesta in modo eloquente un’attenzione e un riconoscimento particolare per la testimonianza civile e non solo spirituale di don Bernardi e don Ghibaudo. Un evento che ricorda, non solo idealmente, l’omaggio di Mattarella alla tomba di don Peppe Diana a Casal di Principe, il 21 marzo scorso, nella Giornata della memoria per le vittime della mafia.

Sacerdoti ministri della Chiesa, certo, ma che furono anche servitori della loro comunità cittadina con spirito di abnegazione fino al sacrificio della propria vita. I martiri, sottolineava Benedetto XVI, superano «l’odio e la violenza, fondando così una nuova città, una nuova comunità». Dal canto suo, Francesco — proprio nell’ultima udienza generale di mercoledì scorso dedicata ai martiri — ha messo l’accento sul loro essere semi di pace e di riconciliazione «per un mondo più fraterno». Questi sacerdoti, morti per e assieme alla propria gente, ci ricordano dunque che nulla è più forte e convincente dell’essere segno concreto della presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Testimonianza esemplare e valida anche per l’Italia di oggi mentre si appresta a celebrare la Festa del 25 aprile, patrimonio comune dell’intera nazione e di tutti coloro che credono nei valori irrinunciabili della libertà e della democrazia. 

di Alessandro Gisotti