Hic sunt leones
L’importanza della tradizione orale per costruire il futuro del continente

Memorie africane

 Memorie africane   QUO-093
21 aprile 2023

«Un popolo senza memoria è un popolo senza futuro». Sono parole dello scrittore cileno Luis Sepúlveda molto attuali che trovano un felice riscontro nell’illuminato magistero di Papa Francesco il quale nella sua ultima enciclica sociale Fratelli tutti ha scritto: «Senza memoria non si va avanti, non si cresce senza una memoria integra e luminosa» (n. 249). Sottolineando lo stretto legame che esiste tra il passato e la comprensione del presente per l’edificazione del futuro, il Pontefice ha coraggiosamente stigmatizzato sic et simpliciter l’inganno della nostra cultura post-moderna in cui la cosiddetta “memoria corta” condanna, soprattutto le società più avanzate, a ripetere gli imperdonabili errori del passato, compromettendo il valore delle proprie conquiste. Ecco che allora spesso si scade nei soliti luoghi comuni, stereotipi, pregiudizi e sottintesi che hanno condizionato tanto non solo il discorso scientifico, ma anche quello comune. In Africa, invece, laddove è collocata una galassia di gruppi etnici con le loro specifiche caratterizzazioni legate a tradizioni ancestrali, la memoria ha una sua sacralità che si procrastina nel tempo.

Andando al di là dunque delle classiche distinzioni occidentali tra memoria come meccanismo organico e memoria come dovere simbolico, tra memoria individuale e collettiva, memoria privata e pubblica, memoria narrativa e memoria del corpo, il continente africano, nelle sue varie declinazioni antropologiche, afferma la centralità della memoria che unisce patrimoni, commemorazioni, testimonianze, amnesie e rievocazioni. Al contempo essa crea un ventaglio di opzioni tra i diversi tentativi di classificare realtà, esperienze, vissuti. Tutto questo trova la sua ricapitolazione in quella che viene definita la tradizione orale, vale a dire un insieme di saperi che presentano una modalità di trasmissione diretta, senza l’uso di supporti scritti. Questo genere di saperi si traduce in molte forme differenti di narrazione che possono essere i racconti, le favole, i miti, le poesie, i proverbi in cui vengono formalizzate le caratteristiche principali dei modelli comportamentali individuali e di vita sociale. Nella trasmissione acquisisce una particolare rilevanza il linguaggio metaforico attraverso il quale è possibile ridefinire continuamente il modello di riferimento e dunque risolvere conflitti individuali e collettivi all’interno delle singole etnie. Siamo dunque di fronte a una molteplicità di società della parola in cui il passato, nel bene e nel male, è un qualcosa di vitale per ottimizzare il presente, guardando al futuro.

Come sosteneva il famoso Amadou Hampâté Bâ (1900-1991), scrittore, filosofo, poeta e antropologo maliano, «le tradizioni orali sono gli archivi letterari, storici e scientifici dell’Africa». Appartenente a una grande famiglia di nobili fulbe (peul), Hampâté Bâ venne iniziato sia alla tradizione animista che alla religione islamica. Dopo l’indipendenza è stato membro del Consiglio esecutivo dell’Unesco. Dal 1970, abbandonate tutte le cariche e gli impegni ufficiali, si dedicò completamente alla creazione di un archivio volto a salvare dalla scomparsa l’immenso patrimonio della tradizione orale africana. In italiano sono stati tradotti: Aspetti della civiltà africana, Emi (1975), L’interprete briccone, Edizioni Lavoro (1988), Petit Bodiel, Sinnos (1998), Gesù visto da un musulmano, Bollati Boringhieri (2000), Il saggio di Bandiagara, Neri Pozza editore (2001), Amkoullel, il bambino fulbe, Ibis (2001), Signorsì, comandante, Ibis (2006), Kaydara, Ibis (2007), Racconti dei saggi d’Africa, L’ippocampo (2010). Nella tradizione orale, secondo Hampâté Bâ, un ruolo particolare è rivestito dagli anziani tanto è vero che una delle sue più celebri locuzioni recita non a caso così: «In Africa quando muore un anziano è una biblioteca che brucia». Gli ha fatto eco Kossi Amékowoyoa Komla-Ebri, scrittore togolese naturalizzato italiano, esponente della letteratura migrante in lingua italiana. Egli ben descrive il dinamismo della comunicazione nel tempo, attraverso i codici di culture orali, cariche di significati, anni luce distanti dall’immaginario nostrano: «… tutto si tramandava da bocca ad orecchio, ossia con la parola. Quindi chi sopravviveva più a lungo, più cose sapeva e più esperienza di vita aveva. Più anziano diventava, più saggio diventava, perché era forgiato dall’esperienza della vita. Allora, gli storici del villaggio erano i griot. I nonni tramandavano le regole della società e le storie del villaggio tramite favole, parabole e indovinelli».

È bene ricordare che nell’Africa occidentale il griot è colui che è specializzo nell’arte del narrare. Potremmo dire che è un poeta e cantore che svolge il ruolo di conservare il deposito orale degli avi attraverso performance quasi sempre interattive col pubblico per suscitare emozioni e condividere saperi. In alcuni contesti storici pre-coloniali ha avuto anche il ruolo di interprete e ambasciatore. Questa figura ha ancora oggi una propria particolare funzione in Paesi come il Mali, la Mauritania, il Gambia, la Guinea, il Senegal e il Burkina Faso, specialmente presso le popolazioni Mandinka, Malinké, Bambara, Fula, Hausa, Toucouleur, Wolof, Sérèr, e tra alcuni gruppi etnici. Occorre comunque rilevare che nel nostro attuale contesto storico, la riflessione degli intellettuali africani ha assunto una forte valenza esistenziale, motivo per cui fare memoria significa esprimere una ribellione nei confronti delle ingiustizie e delle sopraffazioni avvenute nel passato. «Colonizzare è sradicare la memoria. Ho pubblicato 11 libri in francese, uno in tedesco e insegno ogni giorno in inglese, ma non posso leggere la lingua di mio nonno», afferma il camerunese Patrice Nganang, nato nel 1970 a Yaoundé, in Camerun, in una famiglia appartenente al gruppo etnico-linguistico Bamileke. Studioso di storia, letteratura, teatro e culture africane dell’epoca coloniale e post coloniale, si è aggiudicato il Prix Marguerite Yourcenar nel 2001 e il Grand Prix Littéraire d’Afrique Noire nel 2002. Nganang nella storia cerca se stesso, le proprie radici. In italiano si può leggere Tempi da cane, Tirrenia-Stampatori (2008) e La stagione delle prugne 66thand2nd (2018). Il paradosso linguistico innescato dal colonialismo in Africa è emblematico. Lo spiegò molto bene lo storico burkinabé Joseph Ki-Zerbo (1922-2006): «Quando eravamo molto giovani, dovevamo usare a scuola un manuale di storia francese che inizia con: “I nostri antenati, i Galli”. All’inizio della nostra formazione c’era dunque una deformazione. Abbiamo ripetuto meccanicamente ciò che volevano instillare in noi». Le opere di Ki-Zerbo rappresentano davvero un’occasione di riscatto per l’intero continente africano. Tra queste in italiano: Storia dell’Africa nera, Einaudi, Torino 1977; A quando l’Africa? Conversazioni con Rene’ Holenstein, Emi, Bologna 2005.

Molto interessante è anche la riflessione di uno scrittore malgascio Jean-Luc Raharimanana, 56 anni, il quale intervenendo alcuni anni fa a Babel, festival di letteratura a Bellinzona (Svizzera), facendo riferimento alle sofferenze del suo popolo, ha commentato: «Quando avevo dodici, tredici anni, chiedevo a mio padre di raccontarmi il tempo della colonizzazione. Rispondeva solo: “Vivi il tuo presente”, come dite voi oggi. Ribattevo: “Sei tu il mio presente! Tu, con i tuoi ricordi!”. La generazione dei miei genitori è stata traumatizzata, inizia solo ora a parlare di ciò che ha visto. È dovere di noi scrittori tramandare la memoria». La posta in gioco è alta perché la sfida di costruire il futuro in Africa non può prescindere dalla capacità sapiente di fare memoria.

di Giulio Albanese