Ripetitori del Vangelo

 Ripetitori del Vangelo  QUO-084
11 aprile 2023

C’è una parola che Papa Francesco usa con parsimonia perché ne conosce il valore e lo custodisce, in un mondo, quello contemporaneo, che spesso consuma le parole abusandone e quindi svuotandole di significato; una parola che pur essendo raramente pronunciata si cela, con discrezione, all’interno e al di sotto come una fonte sotterranea di tanti gesti e discorsi papali e questa parola è umiltà. Una virtù a suo modo “sfuggente” al punto che non viene contemplata negli elenchi classici, una virtù ambigua che è difficile comprendere e facile fraintendere, un po’ inafferrabile e paradossale perché quando uno pensa di averla è proprio il momento in cui l’ha persa. Viene da dare ragione al gesuita François Varillon che, nell’incipit del suo saggio L’umiltà di Dio, afferma che «Dio solo è umile. L’uomo non lo è, se non nella misura in cui riconosce la propria impotenza a esserlo», il “successo” dell’umiltà coincide con il suo fallimento.

Nei giorni della Settimana santa l’umiltà, questa virtù è emersa perché questo è per eccellenza “il tempo del paradosso”. Domenica scorsa abbiamo ricordato l’ingresso di Gesù a Gerusalemme, un’entrata al tempo stesso “trionfale” e a dorso di un’asina. La mattina del Giovedì santo, nella lunga omelia rivolta ai sacerdoti durante la messa crismale, Papa Francesco ha sottolineato che il sacerdote deve possedere un profumo che non è il proprio ma quello dello Spirito, per questo dobbiamo accoglierlo «non sull’entusiasmo dei nostri sogni, ma sulla fragilità della nostra realtà. È un’unzione che fa verità nel profondo, che permette allo Spirito di ungerci le debolezze, le fatiche, le povertà interiori. Allora l’unzione profuma nuovamente: di Lui, non di noi. La via per questo è ammettere la verità della propria debolezza».

San Paolo vi ha un’efficace definizione: l’umiltà è verità; cioè passa attraverso il riconoscimento dei propri limiti, del fatto che l’uomo è fatto di fango, di terra (in latino humus da cui humanitas e humilitas). Sempre nell’omelia del Giovedì santo il Papa ha parlato proprio dello «Spirito della verità» di cui parla il Vangelo di Giovanni che «ci smuove a guardarci dentro fino in fondo, a chiederci: la mia realizzazione dipende dalla mia bravura, dal ruolo che ottengo, dai complimenti che ricevo, dalla carriera che faccio, dai superiori o dai collaboratori che ho, dai confort che mi posso garantire, oppure dall’unzione che profuma la mia vita?».

Il 10 gennaio 1942 don Primo Mazzolari in una lettera scritta all’amica scrittrice Gabriella Neri si dichiara tranquillo e spiega: «Ecco il motivo della mia tranquillità: il Vangelo non l’ho scritto io. Io ne sono un ripetitore». Ripetitori del Vangelo, questa la missione e il senso dell’esistenza dei sacerdoti e in generale dei cristiani. L’alternativa è quella di non servire il Vangelo ma servirsene per i propri fini, per esercitare un potere e questa opzione fa sfumare tutta la portata innovativa che consiste proprio nell’essere ripetitori. Un anno dopo, proprio nell’aprile di 80 anni fa, in un’altra lettera rivolta ad un amico francescano, Mazzolari afferma che «il santo è sempre un fermento di meravigliose operazioni e può venire trapiantato — lui, non la sua opera – in qualsiasi tempo con eguali frutti di salvezza. Non so se lo stesso possa dirsi delle maniere che usiamo per imitarlo o continuarlo, perché può capitare che, invece di impegnarci con Cristo seguendo il suo esempio, cercassimo di ricavare delle norme dalle sue opere, cadendo inevitabilmente nello schema spirituale, che, se può darci l’illusione di avere, assai di rado è la novità e ci fa novità».

Il cristiano è un uomo nuovo, è lui stesso quella novità che come un “fermento”, un enzima, stimola e sollecita il mondo, lo agita e lo insaporisce come il sale; se però riduce quella novità ad una dottrina, ad una legge o ai risultati delle proprie opere, tutto si perde, la fede diventa uno “schema spirituale” da possedere e rigidamente applicare anziché da incarnare e vivere. La dottrina, la legge, la gloria per le proprie azioni sono cose che noi uomini facciamo calare superbamente dall’alto; ancora una volta quindi è l’umiltà l’antidoto giusto a tutte queste degenerazioni.

Ed è anche la via per la fratellanza e quindi per la pace. Il mondo è “a pezzi”, frantumato e sembra impotente a trovare risposte che non siano quelle delle armi, della forza. La crisi che attraversa la dimensione politica dell’Occidente è sempre più evidente e grave ed è quindi necessario quanto urgente un ritorno alla politica con la p maiuscola; ma, può sembrare singolare, per ottenere questo c’è bisogno proprio dell’umiltà, di questa virtù minuscola. Qualcuno pensa che politica e umiltà non siano tra loro conciliabili ma è vero proprio il contrario, solo le persone umili hanno quella libertà e quel coraggio di osare con creatività di percorrere vie inesplorate. Ritorna ancora una volta preziosa la saggezza di san Paolo vi e delle sue parole pronunciate ai membri dell’Assemblea generale dell’onu il 4 ottobre 1965: «Voi non siete eguali, ma qui vi fate eguali. Può essere per parecchi di voi atto di grande virtù; consentite che ve lo dica Colui che vi parla, il Rappresentante d’una Religione, la quale opera la salvezza mediante l’umiltà del suo Fondatore Divino. Non si può essere fratelli, se non si è umili. Ed è l’orgoglio, per inevitabile che possa sembrare, che provoca le tensioni e le lotte del prestigio, del predominio, del colonialismo dell’egoismo; rompe cioè la fratellanza».

Ecco allora il dono per cui pregare in questa Pasqua affinché sia davvero santa e generatrice di pace: che sia una Pasqua all’insegna dell’umiltà.

di Andrea Monda