Intervista con l’arcivescovo Gabriele Giordano Caccia, Osservatore permanente della Santa Sede all’Onu, sull'attualità della «Pacem in terris»

Stella polare
per un cammino di pace

CACCIA.jpg
08 aprile 2023

A 60 anni dalla pubblicazione, Pacem in terris continua ad essere una stella polare che indica il cammino a quanti, soprattutto nel campo della diplomazia, si impegnano a promuovere il dialogo tra i popoli e a costruire la pace tra le nazioni. Ne è convinto l’arcivescovo Gabriele Giordano Caccia, Osservatore permanente della Santa Sede alle Nazioni Unite a New York. In questa intervista con «L’Osservatore Romano», il presule sottolinea l’attualità dell’enciclica di san Giovanni xxiii e ribadisce il sostegno da parte vaticana alle organizzazioni internazionali e al multilateralismo in un tempo segnato da guerre e contrapposizioni come mai si era vissuto dai tempi della crisi di Cuba.

Lei è al servizio della Santa Sede da molti anni. Quanto la Pacem in terris ha influito nella visione e nell’impegno della diplomazia vaticana per la pace in questi ultimi sessant’anni e su quali punti in particolare?

L’enciclica fu scritta dopo la prima grande crisi internazionale a contenuto nucleare con il relativo rischio reale di una distruzione planetaria, quella cosiddetta dei “missili di Cuba”, e ha permesso, per usare un’immagine meteorologica, di guardare nuovamente il cielo sgombro dalle nuvole che si erano addensate, per ritrovare la stella polare, che indica la direzione del cammino, più che le strade concrete da percorrere. Il testo, come dice chiaramente il titolo, affronta il tema della pace e dunque si estende sull’insieme delle relazioni sia a livello interpersonale con diritti e doveri, sia nel rapporto tra individuo e autorità pubblica, sia fra gli Stati tra di loro. Inoltre l’enciclica si situa in modo significativo nel più ampio contesto di una stagione particolarmente vivace per la riflessione della Chiesa nel rapporto con il mondo, quella del concilio Vaticano ii , che era da poco iniziato. Molti sono dunque gli spunti e le problematiche presenti, che poi saranno ripresi in più ampi e diversificati contesti. Mi piace però sottolineare la questione del disarmo.

Si può soffermare su questo punto chiave della Pacem in terris?

Vi è un chiaro monito a superare la logica della costruzione di rapporti basati sul timore dell’altro e dunque su un equilibrio del terrore, invece che sulla reciproca fiducia, pur con la necessità di strumenti di verifica che ne garantiscano la sincerità. Potremmo dire, per usare una semplificazione, che vi è come un invito a passare dalla logica dello scontro a quella dell’incontro, dall’opposizione alla collaborazione e dalla rivalità alla fraternità, cioè di promuovere un “disarmo integrale”. In questo contesto il Santo Padre metteva allora in guardia dall’allarmante corsa alle armi e specialmente quelle sempre più micidiali che possono colpire indiscriminatamente intere popolazioni e distruggere contemporaneamente la vita stessa del pianeta, con un dispendio di “energie spirituali e di risorse economiche” che meglio andrebbero utilizzate per la promozione della vita e dell’ambiente. Tale appello, sempre più ripetuto anche dai successivi pontefici, purtroppo continua ad essere attuale in un contesto in cui alcuni importanti passi fatti nel passato per la riduzione degli armamenti nucleari, rischia di non trovare strade adeguate a rinnovarsi e portare a compimento quello che ancora rimane un obiettivo chiaro espresso con inequivoche parole dall’enciclica: «si mettano al bando le armi nucleari».

Nel suo discorso al Palazzo di Vetro — nella prima storica visita di un Papa alle Nazioni Unite — Paolo vi menzionò la Pacem in terris che, sottolineò, «ha avuto anche nelle vostre sfere una risonanza tanto onorifica e significativa». Oggi quanto è considerata in sede Onu l’enciclica di Giovanni xxiii ?

Storicamente la Pacem in terris è la prima enciclica in cui si fa menzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, costituita il 26 giugno 1945, a cui dedica l’intero n. 75, sotto il titolo “Segni dei tempi”, con un riferimento anche alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata il 10 dicembre 1948 e di cui quest’anno ricorre il 75o anniversario. Grande attenzione e studio, con iniziative al più alto livello si erano tenute allora anche nel Palazzo di Vetro proprio perché segnava, pur con le necessarie sfumature e precisazioni, un riconoscimento importante per tale Organizzazione, necessaria per rispondere, come diremmo oggi, ai problemi globali, (conflitti, pandemie, cambiamento climatico…) con risposte globali, sempre in ricerca del bene comune universale nel rispetto dei diritti della persona. Interessante notare quasi un crescendo a seguito dell’enciclica: l’anno seguente, 1964, infatti la Santa Sede divenne Osservatore Permanente dell’Organizzazione con la nomina di monsignor Alberto Giovannetti, mentre in quello successivo, il 4 ottobre del 1965 Paolo vi fu il primo Pontefice che rivolse la parola dal podio dell’Assemblea generale. Per rispondere alla domanda, direi che forse non molti dei diplomatici delle nuove generazioni conoscono il testo ed il contesto dell’enciclica, nonostante varie iniziative siano in corso per marcarne il 60o anniversario; tuttavia lo spirito di quel documento vive nella quotidiana attività di questa missione, che ad essa si ispira e nel cammino che la Chiesa ha fatto e continua a compiere seguendone la stella, come si diceva precedentemente.

Nella Pacem in terris, Papa Roncalli dedica ampio spazio all’Onu e auspica che l’Organizzazione delle Nazioni Unite «nelle strutture e nei mezzi, si adegui sempre più alla vastità e nobiltà dei suoi compiti». Come la Santa Sede può aiutare l’Onu a concretizzare questo auspicio di Giovanni xxiii in una fase storica in cui si parla sempre più di crisi del multilateralismo?

Penso che la risposta migliore a questa domanda sia l’ultima enciclica del Santo Padre Francesco, Fratelli tutti, che riporta al centro un atteggiamento di fondo da riscoprire e fare proprio per crescere in un contesto di rispetto e di apertura che sono premesse ad una vera collaborazione fra persone, popoli e nazioni. Su questa base si possono cercare e trovare insieme le strade efficaci di riforma, che in parte sono già all’opera anche tra i membri dell’Organizzazione, come ad esempio il ripensamento e allargamento del Consiglio di sicurezza, la questione del veto, il ruolo più incisivo dell’Assemblea generale, la partecipazione in modi adeguati della società civile, del mondo della cultura e del settore privato. Ma tutto ciò può trovare concrete realizzazioni solo se si cammina con uno spirito adeguato, quello fondato sui pilastri che sono alla base della stessa organizzazione, come bene espresso nel preambolo della Carta delle Nazioni Unite, voluta cioè «a salvare le future generazioni dal flagello della guerra; a riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole; a creare le condizioni in cui la giustizia ed il rispetto degli obblighi derivanti da trattati e dalle altre fonti del diritto internazionale possano essere mantenuti; a promuovere il progresso sociale ed un più elevato tenore di vita in una più ampia libertà». Per fare anche un esempio concreto di questo cammino nell’ambito del disarmo nucleare, oltre al Trattato di non proliferazione (Npt), si è poi avuto quello sulla messa al bando totale degli esperimenti nucleari (Ctbt) e più recentemente, la Santa Sede è stata tra i promotori e firmatari a ratificare tra i primi il Trattato per la proibizione delle armi nucleari (Tpnw), che è entrato in vigore nel gennaio del 2021.

Papa Francesco ha richiamato tante volte Pacem in terris in questi primi dieci anni di pontificato e ancor più da quando è iniziata la guerra in Ucraina. Secondo lei in che modo un documento come l’enciclica di Giovanni xxiii , lo spirito di quel documento, può aiutare i leader politici del nostro tempo a ricercare vie di pace?

Il più ampio e recente richiamo all’enciclica fatto da Papa Francesco si trova nel discorso del 9 gennaio 2023 al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede per i consueti auguri del nuovo anno. L’articolato testo riprende e commenta alla luce dell’attuale situazione alcune dimensioni dell’enciclica e risponde proprio a questa domanda, affermando che «la pace è possibile alla luce di quattro beni fondamentali: la verità, la giustizia, la solidarietà e la libertà. Sono questi i capisaldi che regolano sia i rapporti fra i singoli esseri umani che quelli fra le comunità politiche». È molto interessante vedere come il Santo Padre sviluppi tali criteri nella situazione odierna con chiare indicazioni su diverse problematiche della nostra società. Tra i passaggi di questo discorso, vorrei segnalare anche un testo circa la minaccia nucleare, da cui l’enciclica di Giovanni xxiii aveva in qualche modo preso l’avvio, in cui si vede quanto cammino nel frattempo sia stato compiuto al riguardo, esprimendo una condanna non solo circa l’“uso”, ma perfino il “possesso” di tali armi. Papa Francesco infatti afferma: «Non posso che ribadire in questa sede che il possesso di armi atomiche è immorale poiché — come osservava Giovanni xxiii  — se è difficile persuadersi che vi siano persone capaci di assumersi la responsabilità delle distruzioni e dei dolori che una guerra causerebbe, non è escluso che un fatto imprevedibile ed incontrollabile possa far scoccare la scintilla che metta in moto l’apparato bellico». Ci auguriamo e lavoriamo perché queste parole trovino sempre più spazio nella coscienza di ogni persona di “buona volontà” e attuazione concreta negli strumenti e decisioni che i responsabili delle Nazioni e la comunità internazionale hanno a loro disposizione.

di Alessandro Gisotti