Hic sunt leones
Ogni anno, il calendario liturgico nel giorno del Venerdì Santo, ci invita a fare memoria della passione e morte di Nostro Signore. Chi scrive, viaggiando come missionario e giornalista per lunghi anni, ha avuto modo di visitare numerosi Paesi, soprattutto nel continente africano, dove l’esperienza cruenta del Calvario si procrastina nel tempo. Non solo. Dalle valli alpine fino all’estremo meridione d’Italia, è stato invitato, in varie occasioni, a condividere le proprie esperienze dirette e conoscenze africane in relazione all’attualità delle persecuzioni. Un tema, alla prova dei fatti, che intimidisce la gente comune e in particolare molti praticanti, quanti cioè si sforzano di coltivare il sentimento spirituale attraverso una partecipazione più o meno costante al culto domenicale.
Per chiarezza è bene rammentare che la parola persecuzione, dal latino persequi, nella nostra lingua italiana si applica solitamente all’ambito religioso, in riferimento all’azione di un determinato potere costituito, allorché esso configura come un delitto e punisce conseguentemente l’adesione a una determinata credenza religiosa e tutti gli atti che ne conseguono. Si tratta di una materia ostica, difficile da comporre. Questo, in sostanza, significa che le persecuzioni, se opportunamente valutate, non possono prescindere dalle cause e concause che oggi le generano, sia nei Paesi dove esse sono in atto (ideologie dominanti, politiche perverse, legislazioni arcaiche…), sia nel contesto più generale della globalizzazione, al cui interno certe dinamiche trovano terreno fertile. Tutti questi fattori interagiscono tra loro, a volte rendendo la matassa estremamente intricata e di difficile soluzione. In questi ultimi anni, tale espressione, evocatrice di ingiustizie e sopraffazioni d’ogni genere, è venuta alla ribalta in riferimento agli atti criminali compiuti dai jihadisti nei confronti dei cristiani e altre minoranze religiose. Pensiamo ad esempio alla ferocia del movimento nigeriano di Boko Haram, per non parlare di quello somalo al-Shabaab.
Ma attenzione. Vi sono anche altre forme di martirio generate, ad esempio dalla globalizzazione dei mercati, per cui vi è una moltitudine di persone che quotidianamente viene immolata sull’altare dell’egoismo umano. Emblematico è il martirio della società civile nel settore nordorientale della Repubblica Democratica del Congo dove le formazioni armate sul campo seminano morte e distruzione. Il fattore altamente destabilizzante, come peraltro denunciato da Papa Francesco nel corso della sua recente visita a Kinshasa, è il controllo delle immense risorse minerarie del sottosuolo. Da rilevare che anche lì è operativa da anni una formazione jihadista, ma è una delle tante presenti sul territorio, molte delle quali operano al soldo di potentati più o meno occulti. Tutto questo è sintomatico di una crisi sistemica che riguarda la dimensione antropologica, quella della persona umana depositaria di diritti e doveri, per cui si è arrivati a commettere le peggiori nefandezze, invocando, in alcuni casi, addirittura, a sproposito, il nome di Dio.
Di fronte a questi scenari, il fanatismo va combattuto contrastando l’ignoranza e soprattutto, affermando l’interdipendenza dei popoli e l’esigenza di un’informazione capace di accrescere la virtù della consapevolezza. Evitando quindi di cadere nella trappola della prevaricazione, studiata ad arte dai “signori della guerra”. A questo proposito, approfittando del tempo liturgico che stiamo vivendo, vorrei condividere con i lettori un’esperienza che rappresenta la cifra di questa condivisione in vista della Santa Pasqua di Risurrezione. Durante gli anni Novanta, grazie all’aiuto di un organismo umanitario, riuscii a entrare in un Paese africano in guerra, dove vigeva la sharia, la legge islamica. Per garantire l’incolumità della piccola comunità cristiana ivi residente, ancora oggi sono costretto a omettere i nomi di luoghi e persone. Posso comunque dire che l’insicurezza regnava suprema un po’ ovunque. I centri urbani, come anche le zone rurali, erano in preda a gruppi di miliziani che non solo manifestavano odio e rancore nei confronti dell’Occidente, ma che erano pronti a freddare chiunque si opponesse al loro delirio di onnipotenza. Sapevo bene di rischiare la vita non avendo vocazione da Rambo, ma non potevo tirarmi indietro, anche perché ero pienamente consapevole della posta in gioco: la mia dignità di cronista impegnato nel «dare voce ai senza voce». Avevo ottenuto una sorta di lasciapassare come giornalista essendo al seguito di una missione umanitaria internazionale. D’altronde, se avessi dichiarato la mia vera identità, quella di appartenente a una congregazione missionaria cattolica, probabilmente ora non sarei qui a raccontare questa storia.
Mi era stato riferito che in quell’inferno di dolore vi era una piccola comunità di suore missionarie. Per raggiungere il loro convento era necessario superare uno sbarramento tra le due opposte fazioni armate che si contendevano il controllo del territorio. Si trattava di una fascia larga poco meno di un chilometro, attraversata da una strada in pessime condizioni. Gli edifici adiacenti erano deserti, diroccati e l’atmosfera surreale. Mi incamminai a piedi e raggiunto l’altro versante fui perquisito da due miliziani che, pur essendo stati avvisati del mio arrivo, mi sottoposero a un lungo interrogatorio. Le suore vivevano in un edificio prefabbricato, coperto dalla incerta ombra di un piccolo palmeto. All’inizio, queste consacrate, tutte e tre italiane, pensarono che fossi un cronista occidentale in cerca di scoop e dunque si mostrarono molto diffidenti. Quando però riuscii a spiegare chi fossi, si commossero così tanto che mi chiesero, con le lacrime agli occhi, di celebrare la santa messa. Erano mesi che non potevano farlo, tanto era il tempo trascorso dall’ultima celebrazione eucaristica. Chiesi d’essere accompagnato nella loro cappella. «La nostra è la cattedrale più piccola che lei abbia mai visitato», disse la madre superiora, una donna grintosa e affabile al contempo. Mi invitò a seguirla, accompagnandomi nella sua camera da letto, una stanzetta angusta, illuminata da una finestrella che correva lungo il soffitto. Dentro l’armadio a muro, nascosto tra i suoi indumenti, c’era un piccolo tabernacolo. Sollevò il comodino, quello che sarebbe stato l’altare, e lo mise di fianco al letto. Mi fece sedere su uno sgabello, mentre preparava tutto l’occorrente per la celebrazione. Poi le altre due sorelle si sedettero sul letto assieme a lei, con grande devozione, chiedendo d’iniziare la liturgia. Ero emozionato, avevo la nitida percezione di trovarmi in una realtà che mai avrei osato immaginare. Per celebrare indossai solo una stola, in quanto a parte l’umidità, la temperatura era al limite della sopportazione. Non nascondo la mia inadeguatezza di fronte a quelle donne così capaci d’interpretare fedelmente la parresia, il coraggio di osare. Tra l’altro, una di loro, poco tempo dopo, venne uccisa da un terrorista. Quel giorno mi resi conto davvero di cosa fosse la Martyria, intesa come testimonianza. Mi venne chiesto di consacrare due chili e mezzo di ostie. Mi spiegarono, successivamente, che le particole sarebbero state poste a parcelle all’interno di piccoli flaconi di medicine, ricoperte con l’ovatta e distribuite ai fedeli attraverso i catechisti di quattro piccole comunità. Proprio tutto quello che restava di una Chiesa di frontiera. Ciò che mi colpì maggiormente fu l’atteggiamento compassionevole di quelle donne consacrate di fronte ai loro persecutori. «Perché — mi disse la superiora — essere cristiani significa non essere mai contro qualcuno». Parole ispirate che trovano il loro fondamento nel Vangelo: «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi» (Mt 5.11-12).
Siamo di fronte all’azzardo dell’utopia, quando cioè le parole trovano un felice riscontro nella prassi di coloro che hanno fatto la scelta di stare dalla parte degli ultimi. Come scriveva Sant’Agostino: «Le parole non sono state inventate perché gli uomini s’ingannino tra loro, ma perché ciascuno passi all’altro la bontà dei propri pensieri».
di Giulio Albanese