Il magistero

 Il magistero  QUO-081
06 aprile 2023

Lunedì 3

No al lavoro
nero e precario
sì al lavoro
dignitoso

Il tema della previdenza è sempre attuale. Da una parte, infatti, la società sembra aver smarrito l’orizzonte futuro: si è appiattita sul presente e interessa poco quello che potrà capitare alle future generazioni.

Segni preoccupanti sono la crisi ecologica e il debito pubblico che viene caricato sulle spalle di figli e nipoti.

La scelta della sostenibilità, invece, risponde al principio per cui è ingiusto affidare ai giovani pesi irreversibili e troppo gravosi.

La previdenza è una forma di welfare che tiene insieme le diverse generazioni.

La meritata pensione di un lavoratore, si sostiene non solo grazie ai suoi anni di lavoro, ma anche sul fatto che c’è qualcuno che, attraverso la sua attività, sta pagando concretamente la pensione di altri.

Un forte legame tra le generazioni è il presupposto perché la previdenza funzioni.

Vedo qui dei bambini, e mi viene in mente un uomo di quasi 60 anni, che davanti all’inverno demografico italiano dice: “Ma chi pagherà la mia pensione? Non saranno i cagnolini che la gente ha al posto dei figli”.

Al sistema pensionistico contribuiscono anche lavoratori stranieri che non hanno ancora la cittadinanza italiana.

Sarebbe un buon segno poter esprimere loro la gratitudine per quello che fanno.

Anche la previdenza ci ricorda che «tutto è connesso» e che siamo interdipendenti.

La vita sociale sta in piedi grazie a reti comunitarie solidali. Il bene comune passa attraverso il lavoro quotidiano di milioni di persone che condividono il principio del legame solidale tra i lavoratori.

Desidero rivolgere tre appelli per custodire una previdenza all’altezza delle sfide di società che, come quella italiana, stanno invecchiando sempre più.

Il primo è un no al lavoro nero. Ma che diventi una cultura. Sul momento, infatti, sembra portare benefici economici all’individuo, ma alla distanza non permette alle famiglie di contribuire e accedere secondo giustizia al sistema pensionistico. Esso falsa il mercato ed espone i lavoratori a forme di sfruttamento e ingiustizia.

Il secondo è un no all’abuso del lavoro precario, che ha un impatto sulle scelte di vita dei giovani e talora costringe a lavorare anche quando le forze vengono meno.

La precarietà dev’essere transitoria; altrimenti, finisce per portare sfiducia, favorisce il rimando delle scelte di vita dei giovani, allontana l’ingresso nel sistema previdenziale e incrementa la denatalità.

Il terzo è un sì al lavoro dignitoso, che è sempre libero, creativo, partecipativo e solidale. Mettere da parte risorse economiche e garantire l’accesso alla sanità sono beni preziosi che sanno tenere insieme le diverse stagioni della vita.

Per una buona
previdenza

Conosciamo, una previdenza buona e una cattiva, che la Bibbia descrive molto bene.

È cattiva previdenza quella di chi pensa solo a sé stesso, come ricorda la parabola evangelica dell’uomo avaro (Lc 12, 16-21), che fa costruire magazzini sempre più grandi per raccogliere i suoi beni.

Chi accumula solo per sé finisce per illudersi: non ha futuro chi si rinchiude nelle false sicurezze.

Buona previdenza, invece, è quella del patriarca Giuseppe che, divenuto governatore d’Egitto, si preoccupa di mettere da parte il grano negli anni dell’abbondanza per affrontare il tempo della carestia.

Giuseppe non solo confida nella Provvidenza di Dio e la riconosce, ma si mostra previdente per il bene del popolo.

Sa guardare in avanti; immagina il bene anche quando il male sembra prevalere; si prende cura delle persone a lui affidate.

Questa è la vostra vocazione: prendersi cura delle persone in futuro.

Abbiamo bisogno di politici saggi, guidati dal criterio della fraternità e che sanno fare discernimento, evitando di sprecare le risorse quando ci sono e di lasciare le future generazioni in difficoltà.

Vi ringrazio per il servizio che fate a sostegno dei lavoratori, per garantire l’assistenza alle persone disoccupate e in favore di chi è malato, infortunato o anziano.

Auspico che continuiate a rendere concretamente possibile il diritto alla pensione, e soprattutto a far crescere nel tessuto italiano la cultura del bene comune, della previdenza e della sostenibilità, che per essere economica dev’essere anche sociale.

(A dirigenti e dipendenti dell’Istituto nazionale della previdenza sociale italiana - Inps)

Mercoledì 5

Uomo, dov’è
la tua speranza?

Domenica scorsa la Liturgia ci ha fatto ascoltare la Passione del Signore. Essa termina con queste parole: «Sigillarono la pietra».

Per i discepoli di Gesù quel macigno segna il capolinea della speranza. Il Maestro è stato crocifisso, ucciso nel modo più crudele e umiliante, appeso a un patibolo infame fuori dalla città: un fallimento pubblico, il peggior finale possibile a quell’epoca.

Quello sconforto che opprimeva i discepoli non è del tutto estraneo a noi oggi.

Anche in noi si addensano pensieri cupi e sentimenti di frustrazione: perché tanta indifferenza verso Dio? Perché tanto male nel mondo? Perché le disuguaglianze continuano a crescere e la sospirata pace non arriva? Perché siamo attaccati così alla guerra?

Nei cuori di ognuno, quante attese svanite, quante delusioni! E quella sensazione che i tempi passati fossero migliori.

Sotto la pietra
della sfiducia

Anche oggi la speranza sembra a volte sigillata sotto la pietra della sfiducia. Invito ognuno a pensare: dov’è la tua speranza? Hai una speranza viva o l’hai sigillata, o l’hai nel cassetto come un ricordo?

La speranza ti spinge a camminare o è un ricordo romantico?

Nella mente dei discepoli rimaneva fissa un’immagine: la croce. Lì si concentrava la fine di tutto. Ma di lì a poco avrebbero scoperto nella croce un nuovo inizio.

La speranza di Dio germoglia così, nasce e rinasce nei buchi neri delle nostre attese deluse; e non delude mai.

Dal più terribile strumento di tortura Dio ha ricavato il segno più grande dell’amore.

Quel legno di morte, diventato albero di vita, ricorda che gli inizi di Dio cominciano spesso dalle nostre fini.

Guardiamo l’albero della croce perché germogli in noi la speranza: per essere guariti dalla tristezza — ma quanta gente triste. Quanti sguardi tristi! gente che cammina soltanto con il telefonino, senza pace.

Ci vuole un po’ di speranza per essere guariti dalla tristezza, dall’amarezza con cui inquiniamo la Chiesa e il mondo.

Guardiamo il Crocifisso. E che cosa vediamo? Vediamo Gesù nudo, Gesù spogliato, Gesù ferito, Gesù tormentato. Lì c’è la nostra speranza.

Cogliamo come la speranza, che sembra morire, rinasce.

Dio che ha tutto si lascia privare di tutto. Ma quell’umiliazione è via di redenzione.

Dio vince così sulle nostre apparenze. Noi, facciamo fatica a metterci a nudo, a fare la verità: perché non ci piace; ci rivestiamo di esteriorità, di maschere per camuffarci e mostrarci migliori.

È un po’ l’abitudine del maquillage interiore... Pensiamo che l’importante sia ostentare, apparire, così che gli altri dicano bene di noi. E ci addobbiamo di apparenze, cose superflue; ma non troviamo pace.

Poi il maquillage se ne va e ti guardi allo specchio con la faccia brutta che hai, ma vera, quella che Dio ama.

E Gesù spogliato di tutto ricorda che la speranza rinasce col fare verità su di noi, col lasciar cadere le doppiezze, col liberarci dalla pacifica convivenza con le nostre falsità.

A volte, siamo tanto abituati a dirci delle falsità che conviviamo con esse come se fossero verità e finiamo avvelenati dalle stesse.

Serve tornare al cuore, all’essenziale, a una vita semplice, spoglia di cose inutili, che sono surrogati di speranza.

Oggi tutto è complesso e si rischia di perdere il filo; abbiamo bisogno di semplicità, di riscoprire il valore della sobrietà, della rinuncia; fare pulizia di ciò che inquina il cuore e rende tristi.

Ciascuno di noi può pensare a una cosa inutile di cui può liberarsi per ritrovarsi.

Svuotare
il guardaroba
dell’anima

Quindici giorni fa a Santa Marta, dove abito — un albergo — si è sparsa la voce che per questa Settimana Santa sarebbe stato bello mandare via le cose che non usiamo.

Spogliarsi delle cose inutili. E questo è andato ai poveri, alla gente che ha bisogno.

Guardate il vostro guardaroba e fate pulizia... il guardaroba dell’anima: quante cose inutili, quante illusioni stupide.

Torniamo alla semplicità, alle cose vere, che non hanno bisogno di truccarsi. Ecco un bell’esercizio!

Rivolgiamo un secondo sguardo al Crocifisso, a Gesù ferito. La croce mostra i chiodi che gli forano mani e piedi, il costato aperto.

Ferite nascoste

Ma alle ferite del corpo si aggiungono quelle dell’anima: quanta angoscia! Gesù è solo: tradito, consegnato e rinnegato dai suoi amici, dai discepoli, condannato dal potere religioso e civile, scomunicato; prova persino l’abbandono di Dio.

Sulla croce compare inoltre il motivo della condanna. È un dileggio: Lui, che era fuggito quando cercavano di farlo re, viene condannato per essersi fatto re; pur non avendo commesso reati, è messo in mezzo a due malfattori e gli viene preferito il violento Barabba.

Gesù nudo, privo di tutto, cosa dice alla mia speranza, come mi aiuta?

Anche noi siamo feriti. A volte, con ferite nascoste che nascondiamo per la vergogna.

Chi non porta le cicatrici di scelte passate, di incomprensioni, di dolori che si fatica a superare? Ma anche di torti subiti, di parole taglienti, di giudizi inclementi?

Dio non nasconde le ferite che gli hanno trapassato il corpo e l’anima. Le mostra per farci vedere che a Pasqua si può aprire un passaggio nuovo: fare delle ferite dei fori di luce.

Gesù in croce non recrimina, ama. E perdona chi lo ferisce. Così converte il male in bene, trasforma il dolore in amore.

Il punto non è essere feriti dalla vita, il punto è cosa fare delle ferite. Le piccoline, le grandi, quelle che lasceranno un segno nel corpo, nell’anima sempre.

Puoi lasciarle infettare nel rancore, nella tristezza oppure unirle a quelle di Gesù, perché diventino luminose.

Pensate a quanti giovani non tollerano le proprie ferite e cercano nel suicidio una via di salvezza e preferiscono la droga.

Asciugare
le lacrime altrui

Le nostre ferite possono diventare fonti di speranza quando, anziché piangerci addosso, asciughiamo le lacrime altrui; anziché covare risentimento, ci prendiamo cura di ciò che manca agli altri; anziché rimuginare, ci chiniamo su chi soffre; anziché essere assetati d’amore per noi, dissetiamo chi ha bisogno.

Perché solo se smettiamo di pensare a noi, ci ritroviamo.

E facendo così la nostra ferita si rimargina e la speranza rifiorisce.

(Udienza generale in piazza San Pietro)