Storie di risurrezione Tre anni, di cui uno passato in carcere, per arrivare a Roma dove insegna gratuitamente fotografia

Un grande vuoto che si può riempire

 Un grande   vuoto che si può riempire  ODS-009
01 aprile 2023

Mi chiamo Mohamed Keita e sono un fotografo. Mi sono trovato per caso a fare fotografie. Molte cose nella mia vita sono accadute in modo imprevedibile. Sicuramente ci sono state persone che mi hanno aiutato ed è grazie a loro che ho raggiunto maggior sicurezza nel continuare su questa strada, nel capire come potevo maturare in questa professione.

Quando ho realizzato i miei primi scatti, avevo la sensazione di vedere delle cose particolari, quasi che potessi toccare, attraverso l’immagine, l’essenza di quello che volevo rappresentare. Ma è stato grazie alle scuole di fotografia che ho imparato a raccontare, a descrivere quello che veramente vedevo dietro l’obiettivo. Ritengo che la formazione nelle scuole sia stata una parte fondamentale della scoperta del mio fare fotografia, e non solo.

Sono arrivato qui, in Italia, a 17 anni. Io non volevo lasciare la Costa d’Avorio, il mio paese. Sono partito da lì che avevo appena 14 anni e sono andato via da solo. Separarmi da casa e affrontare diverse realtà mi hanno fatto guardare il mondo da un’altra prospettiva, che mai avrei potuto avere se fossi rimasto lì. A 10 anni pensavo che l’unica lingua del mondo fosse la mia, il francese. Poi ho scoperto che non è così. Attraversando diversi paesi, incontrando persone nuove, ho conosciuto l’esistenza di mondi diversi dal mio. È stato difficile lasciarmi alle spalle la mia casa e andare verso un ignoto, che neanche nella mia mente poteva essere rappresentato. Questo è quello che potrei chiamare il mio primo shock.

Ho lasciato tutto, senza voltarmi indietro, perché avevo capito che dovevo trovare un posto in cui poter vivere un reciproco “ci tengo a te”. Ciò che era rimasto, con lo scoppio della guerra civile, nel mio paese, non lo riconoscevo più come casa. Ho vissuto quell’evento come qualcosa che non avevo deciso, ma solo subìto. Ho visto la mia famiglia spaccarsi in due, non sapendo neanche il motivo o l’origine di quel conflitto. E vedere accadere tutto senza un perché è stato davvero doloroso.

Mi sforzavo di credere che tutto quello che mi era successo poteva essere superato. Ma il problema è sempre stato: come? Ho capito l’importanza di adattarsi, di fare cose che non sempre sono quelle che vuoi, di trovare il modo di accettare e nello stesso tempo di trasformare l’occasione, il momento vissuto in qualcos’altro.

Questo l’ho imparato nei miei anni di cammino dal mio paese fino ad oggi. Nessuno me l’ha insegnato. Quando ero in difficoltà, non potevo pensare che c’era la mamma o il papà che potevano aiutarmi, dovevo essere capace di cavarmela da solo.

Ho attraversato la Guinea, il Mali, l’Algeria e la Libia, poi sono arrivato a Malta e dopo in Italia. Per spostarmi ho sempre lavorato. Ero solo un minorenne e a quell’età non dimentichi facilmente quello che ti succede o chi incontri. Non posso dire che tutto sia stato buio, ma sicuramente molte cose sono state difficili. Ci sono state cose anche belle e importanti che in qualche modo mi hanno aiutato a riflettere, a crescere. Posso però dire che proprio nelle difficoltà ho conosciuto la geografia dell’essere umano, la sua complessità: quando non si ha nessuna difesa e gli altri ti caricano tutta la loro rabbia o quando sono mossi da buone intenzioni, nell’aiutarti, ma in realtà lo stanno facendo solo per loro interesse. Sono passaggi che non avrei potuto comprendere se non li avessi vissuti.

Oggi, mi piace raccontare attraverso le immagini tutto quello che ho imparato dai viaggi della mia vita. La fotografia mi ricorda che io sono prima di tutto una persona e che quello che cade sotto il mio obiettivo merita rispetto. Ciò che fotografo non deve essere per me mai ferito. A volte le immagini possono fare molto male.

Quando arrivai a Malta con una barca clandestina, dopo un viaggio disumano, sono rimasto lì, in carcere, per un anno e otto mesi. Il vero nemico del carcere è il tempo. Un giorno si trasforma in una settimana. Una settimana, in un mese. Ma è stata quell’esperienza a farmi sentire un vuoto che dovevo colmare, rispetto a tutti gli altri. Da piccolo non avevo frequentato la scuola, solo dei corsi serali per tre anni per imparare a leggere e a scrivere. È stato proprio quel vuoto a spingermi ad andare avanti.

Così, dopo la scarcerazione, arrivai in Sicilia e poi a Roma. Il mio obiettivo era andare in un paese dove si parlasse almeno la mia lingua. Non volevo restare in Italia. Ma dopo tre mesi vissuti alla stazione Termini, dormendo per strada e cercando di capire come andare avanti senza soldi e documenti, arrivai al “Civico Zero”. Lì due volontari organizzavano dei corsi di fotografia. Non capivo quello che dicevano, ma provai lo stesso, imparando soprattutto dai loro gesti.

Un giorno, per caso, passò Carlos Pilotto che vide le mie fotografie appese nel laboratorio del centro d’accoglienza. Parlammo e mi chiese di seguire i suoi corsi di fotografia gratuitamente. Ho seguito i corsi di Carlos per 5 anni, ripetendoli, perché il mio vuoto doveva essere colmato. Nel frattempo, lavoravo in un albergo per guadagnarmi da vivere.

Dopo ho conosciuto altri fotografi importanti, che mi hanno permesso di approfondire e affinare meglio la mia tecnica. Ricordo la mia prima mostra di fotografia al “Civico Zero” e successivamente, alla biblioteca della Camera dei deputati. Da lì in poi ne sono state organizzate molte altre in Europa e negli Stati Uniti.

Oggi, dopo 10 anni che vivo qui a Roma, ho capito che non voglio solo fare il fotografo, ma offrire agli altri quanto ho ricevuto. Per questo, insieme ad amici, abbiamo aperto la scuola kene , qui a Roma, uno spazio gratuito dove chiunque può imparare ad apprendere quest’arte. Ma non basta. Sono tornato in Africa e ho desiderato che anche lì ci fosse quest’opportunità, affinché i giovani possano avere un’occasione di non crescere con quello stesso vuoto con cui io sono arrivato qui in Italia. Abbiamo aperto una scuola in Mali e il mio sogno è continuare ad aprirne altre.

(Storia raccolta da
Giuditta Bonsangue)