A Roma una conferenza con testimonianze e riflessioni su un drammatico fenomeno in aumento

Un’azione integrata
per sconfiggere la violenza sessuale legata ai conflitti

 Un’azione integrata per sconfiggere   la violenza sessuale legata ai conflitti  QUO-071
25 marzo 2023

Cosa resta dei traumi della violenza di genere nei conflitti? E quali vie si possono percorrere per tentare di rimarginare ferite profonde che finiscono per rompere anche i legami sociali della comunità di appartenenza, riempiendo di vergogna le vittime? Se n’è parlato nel pomeriggio del 24 marzo, presso l’Istituto Maria Santissima Bambina, a Roma, nell’ambito della conferenza internazionale «Conflict-Related Sexual Violence Raising Awareness» promossa e organizzata dall’Ambasciata britannica presso la Santa Sede in collaborazione con l’Unione mondiale delle organizzazioni femminili cattoliche (Wucwo). A moderare l’incontro, a cui ha partecipato anche il prefetto del dicastero per la Comunicazione, Paolo Ruffini, è stata suor Bernadette Reis, del coordinamento editoriale del medesimo dicastero.

La voce di chi ha subito violenza in contesti di guerra, dall’Africa all’Ucraina, ha commosso i partecipanti. Dalla Repubblica Democratica del Congo, in video collegamento, la testimonianza di Nyota Mapendo, diciottenne del Nord Kivu, che ha avuto l’opportunità di incontrare Papa Francesco in occasione del viaggio apostolico nel Paese africano compiuto il mese scorso dal Pontefice, al quale la giovane ha raccontato la sua storia di sopravvissuta e di attivista per le persone con albinismo. Dal 2016 è coinvolta in un progetto di salute mentale e sostegno psicosociale organizzato dal Jesuit Refugee Service (Jrs) per l’accompagnamento degli sfollati interni. Rapita da un gruppo di uomini armati, è stata violentata più volte ed è rimasta incinta. Grazie al sostegno e all’advocacy del Jrs, è riuscita a tornare a scuola, che ama tanto. Nyota fortunatamente è stata accettata dalla sua famiglia, nonostante il suo albinismo, ma fin da piccola è stata discriminata nella comunità: è diffusa infatti la credenza che queste persone abbiano poteri magici e quindi che siano da allontanare. L’incontro con il Jrs l’ha tutelata nel suo diritto all’istruzione, ma ha anche sensibilizzato sui diritti delle persone albine: «Ora mi sento felice e apprezzata». Il suo appello, ora, è quello di aiutare la sua gente a combattere l’impunità nella Repubblica Democratica del Congo, e a costruire la pace.

Padre Bernard Ugeux, collegato da Bukavu (Repubblica Democratica del Congo) insiste sullo stupro come arma di guerra e sulle gravi conseguenze psicologiche, sociali e culturali che esso procura. «Si tratta — spiega — di un vero e proprio tentativo di distruggere una rete sociale». Illustra il suo coinvolgimento nella protezione e nella reintegrazione dei sopravvissuti e nella formazione di persone consacrate per accogliere e accompagnare queste persone. In particolare, descrive l’opera del Centro Nyota, riconosciuto dalla Chiesa cattolica e dallo Stato congolese e sovvenzionato da donazioni esterne: un istituto che offre assistenza olistica e psicosociale a 250 ragazze e giovani donne, considerando che anche i bambini hanno bisogno di assistenza medica a causa della violenza che subiscono. Ricorda l’importanza del “Protocollo internazionale sulla documentazione e l’investigazione della violenza sessuale legata ai conflitti” a cui hanno contribuito, oltre che il governo britannico, i missionari d’Africa. «L’appello — conclude — è ad aiutarci contro la banalizzazione di questo crimine».

Barbara Paleczny fa parte della associazione Solidarity with South Sudan, di cui coordina l’ambito relativo alla giustizia e alla pace. Anche lei ha offerto la sua testimonianza raccontando con estrema vividezza e creatività i frutti di un lavoro di dodici anni avviato in scuole per insegnanti accreditate dal governo a Yambio, Malakal e in aree remote, in un istituto di formazione sanitaria per infermieri e ostetriche a Wau, in un progetto agricolo-educativo a Riimenze e in un centro pastorale a Kit. Parla di una violenza che diventa “normale”, un modo di relazionarsi. Ma «il trauma — afferma — non deve essere una condanna a vita». Attraverso un lavoro sul corpo, si aiutano le vittime a riappropriarsene: «Una delle mie grandi gioie è stata camminare per il campo-profughi dove donne vivaci mi hanno mostrato le loro bancarelle e vedere donne e ragazze, ovunque, sollevarsi, trovare la loro voce e il loro potere», racconta. La sua testimonianza è corredata da disegni che lei ha realizzato e che mostrano il tentativo di rappresentare questa operazione di “riscatto”. Gradualmente, grazie all’aiuto specializzato delle équipe di Barbara, il corpo femminile si è liberato dallo stigma, dal considerarsi un territorio da controllare e sfruttare. Paleczny inoltre invita a cambiare prospettiva: «Il mondo non è “loro” e “noi”. La comunità mondiale è un “noi collettivo” ferito. Le persone hanno creato gli attuali sistemi di oppressione e le persone possono cambiarli».

Dall’Africa all’Ucraina: comune denominatore la guerra. Natalia Holynska, responsabile del progetto Caritas Ucraina contro la tratta, illustra il contributo dell’organismo nella formazione e nell’informazione sui casi di violazione dei diritti umani dei civili nel Paese. «Ci troviamo di fronte a episodi gravi e crudeli di sfruttamento sessuale di donne e ragazze», registra. Kyiv, Chernihiv, Irpin sono i luoghi dove maggiormente ciò accade, i soldati russi ne sono artefici, denuncia Natalia che sottolinea come alcune vittime si siano suicidate per il senso di vergogna. Nella sua testimonianza racconta di persone costrette a rapporti sessuali con gli occupanti sotto la minacciate di morte o di tortura, di le connessioni telefoniche e Internet bloccate, di cellulari sequestrati, di uomini privati dei vestiti e costretti a rimanere al freddo e al gelo, di violenze perpetrate davanti agli occhi dei bambini.

«Dall’Ucraina l’appello è alla comunità internazionale e a ciascuno di noi», ha rilevato Christopher Trott, ambasciatore della Gran Bretagna presso la Santa Sede. Anch’egli si è soffermato sull’impatto psicologico, sul peso dello stigma e sul fatto che la violenza sessuale legata ai conflitti può compromettere la riduzione della povertà, la resilienza e la ripresa dalle crisi. È un tema su cui il governo britannico è molto impegnato, ha ricordato, tanto che il Regno Unito ha varato un finanziamento di 12,5 milioni di sterline (pari a 14,8 milioni di euro) per i prossimi tre anni da impiegare in questo ambito. Trott ha citato la recente “Conferenza di Londra” che ha visto anche il lancio del “Codice Murad” (dal nome di Nadia Murad, Nobel per la Pace, lei stessa sopravvissuta alla violenza sessuale perpetrata da Daesh in Iraq) il quale stabilisce come raccogliere informazioni dai sopravvissuti in modo sicuro ed efficace. Inoltre, l’ambasciatore ha esortato i leader religiosi a proseguire la loro opera di sensibilizzazione perché il loro ruolo è determinante: possono per esempio «smantellare le dannose interpretazioni errate dei testi religiosi utilizzate per giustificare la violenza sessuale nei conflitti». A questo proposito, ha incoraggiato i capi religiosi a firmare la dichiarazione della Conferenza ministeriale internazionale sulla libertà di religione o di credo (svoltasi a Londra nel luglio del 2022) e a metterla in pratica all’interno delle loro comunità.

Trott ha definito come «incredibilmente potenti» le dichiarazioni di Papa Francesco nel suo viaggio in Repubblica Democratica del Congo. E proprio ampie citazioni del Pontefice in Africa, così come le parole di alcune delle vittime di atroci violenze subite nei due Paesi visitati da Francesco, sono state riprese dal prefetto del dicastero per la Comunicazione, Paolo Ruffini, che ha ricordato la sua commozione ascoltando la dolorosa testimonianza di Mukumbi Kamala a Kinshasa e quella di Emelda M'karhungulu del villaggio di Bugobe. «Quello che so è che il loro grido non può rimanere inascoltato», ha affermato. «Dovremmo rispondere come ha fatto il Papa a Kinshasa: “No alla violenza. E no alla rassegnazione, che ci rende complici, parte del male; che non contempla la possibilità di cambiare”». Ruffini ha invitato ad «assumerci la nostra responsabilità per riprendere un cammino di bontà. È importante ritrovare la forza di chi vede, di chi sa vedere il male, di chi lo sa distinguere, di chi lo sa denunciare, di chi lo assume e lo trasforma con la forza del bene». Il prefetto ha ammesso che quando diciamo “guerra”, teniamo conto solo dei confini geografici, non di quelli dei corpi violati. E ha citato alcuni dati: quelli delle Nazioni Unite che hanno verificato 3.293 casi di violenza sessuale legata ai conflitti nel 2021, 800 in più rispetto al 2020, in 18 Paesi; quelli di Amnesty International Francia, secondo cui, nel 2021, 44 milioni di donne e ragazze sono state sfollate con la forza all’interno del proprio Paese, il che le ha esposte potenzialmente alla violenza; quelli dell’ong Gynécologie sans frontières, per la quale la maggior parte delle donne accolte in Europa ha subito violenza sessuale. «Questa violenza — scandisce Ruffini — che non ha cultura, né religione, né confini, deve essere condannata, deve essere combattuta, deve essere sconfitta».

Tra i partecipanti all’incontro anche Andrea Atzori, responsabile delle relazioni internazionali di Medici per l’Africa Cuamm. Il suo contributo ha evidenziato la cronicità della condizione di coloro che non hanno protezione, perché in alcune regioni dell’Africa non si tratta più di situazioni emergenziali. Atzori ha richiamato anche alla necessità di un sistema integrato che va potenziato coordinando la Chiesa locale, l’attività dei missionari, la società civile e il supporto delle ong.

Anche la giornalista argentina Elisabetta Piqué — corrispondente del quotidiano «La Nación», di rientro da una lunga permanenza in Ucraina — è intervenuta ribadendo che cruciale è il ruolo degli operatori dell’informazione, considerando anche il problema di distinguere le fake news in conflitti in cui la propaganda ha un forte gioco. A chiudere la conferenza, le parole di María Lía Zervino, presidente dell’Unione mondiale delle organizzazioni femminili cattoliche: dobbiamo interiorizzare in silenzio quanto abbiamo avuto il privilegio di ascoltare, ha chiosato, e non smettere di esserne interpellati.

di Antonella Palermo