Hic sunt leones
I cambiamenti nel concetto di “Sud del mondo” provocati dal conflitto in Ucraina

L’Africa e il “Global South”

 L’Africa  e il “Global South”  QUO-070
24 marzo 2023

Spesso si parla di “Sud del mondo” dimenticando che, in sede accademica, si attribuiscono diversi significati a questa espressione. In primo luogo, è stata utilizzata storicamente all’interno delle organizzazioni intergovernative per lo sviluppo — principalmente quelle che hanno avuto origine nel Movimento dei non allineati — per riferirsi a quegli Stati-Nazione economicamente svantaggiati e come alternativa post-guerra fredda al Terzo Mondo. Tuttavia, negli ultimi anni, questa terminologia afferisce anche a quegli spazi e a quei popoli influenzati negativamente dalla globalizzazione liberista dei mercati. Da questo punto di vista, il Sud del mondo fa riferimento diretto ad una geografia “deterritorializzata” delle esternalità, quelle determinate dal sistema capitalistico. La dice lunga il fatto che oggi vi siano Sud economici nel Nord geografico e viceversa tanti Nord nel Sud inteso come periferia del mondo. Vi è poi un significato ancora più estensivo che fa riferimento a un soggetto politico transnazionale sottomesso al cosiddetto capitalismo globale contemporaneo. Su questi temi la bibliografia è ricchissima e molto è stato scritto in questi anni da studiosi del calibro di Alfred Lopez, Vijay Prashad, Anne Garland Mahler, Russell West-Pavlov.

Ma non è tutto qui: nel lessico geoeconomico e geostrategico internazionale, vi è un nuovo concetto in ascesa, quello del cosiddetto Global South (Sud Globale), che ha il merito di dar conto del fatto che molti Paesi in Africa, Asia e America Latina si trovano a dover scegliere, a seguito della crisi russo-ucraina, tra le economie avanzate occidentali e i suoi concorrenti, sperando di guadagnare spazi di iniziativa e influenza regionale. Non v’è dubbio che l’integrazione del Sud del mondo, di cui fanno parte i Paesi africani, nella politica internazionale e nell’economia globale continua a rappresentare la vexata quaestio dell’attuale momento politico.

In effetti, mentre i Paesi del cartello dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) tendono a espandere la loro area d’influenza, l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Sco) e l’Unione economica eurasiatica (Uee) intensificano gli scambi con il governo russo e lavorano allo sviluppo di una nuova divisa commerciale globale basata su una combinazione di valute nazionali e valori mercantili. Si tratta di un modello di finanza multipolare che ha lo scopo di contrastare gradualmente l’egemonia unipolare del petrodollaro legata al cartello bancario anglo-americano. Che di rivalità si tratti, anche sul versante africano, lo dimostra la firma del Memorandum of understanding siglato a Washington lo scorso 13 dicembre, durante l’Africa Leaders Summit. Gli Stati Uniti, in sostanza, aiuteranno la Repubblica Democratica del Congo e lo Zambia a sviluppare congiuntamente una catena di fornitura per le batterie dei veicoli elettrici. Ovvero gli Stati Uniti sosterranno i principali produttori locali di cobalto e nichel, passando dalla semplice estrazione alla fase di raffinazione.

Da rilevare che la Repubblica Democratica del Congo produce oltre il 70 per cento del cobalto mondiale. Lo Zambia è il sesto produttore mondiale di rame e il secondo produttore di cobalto in Africa. Queste risorse e questo impegno per la cooperazione sono componenti cruciali della transizione energetica globale urgentemente necessaria. Il piano per lo sviluppo di una catena di fornitura di batterie elettriche apre la porta a investimenti per promuovere un’industria sostenibile, a valore aggiunto nella macroregione subsahariana. L’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale, il Dipartimento del commercio e l’Agenzia per il commercio e lo sviluppo forniranno assistenza tecnica per le catene di fornitura di veicoli elettrici nei due Paesi africani con l’intento di garantire l’agognata transizione energetica. Ci vorrà certamente tempo per passare dalle parole ai fatti, ma l’obiettivo è chiaro: affrancare le nazioni africane dalla Cina che, al momento controlla, i processi estrattivi nel continente con grande disinvoltura. Ad esempio nella Repubblica Democratica del Congo, non solo ha il controllo dell’80 per cento delle miniere locali, ma utilizza sensori intelligenti, tecnologia di comunicazione ad alta velocità e live streaming per controllare i processi estrattivi. Gli operatori minerari cinesi che sovrintendono all’estrazione del cobalto africano possono monitorare e controllare le attività in loco dal proprio telefono cellulare o laptop in Cina in tempo reale.

È evidente che, di fronte a questo scenario, il complesso mosaico della presenza straniera in Africa è oggi la cartina al tornasole degli effetti divisori acuitisi a seguito della crisi che insanguina l’Europa Orientale. In questo contesto, una delle grandi preoccupazioni che assillano i principali decisori politici africani è quella di evitare, nei limiti del possibile, di finire invischiati nelle contese tra i principali attori internazionali. Il vero problema da affrontare in sede internazionale riguarda certamente la redistribuzione del potere che implica la ricerca, a livello politico, di quei meccanismi che possano determinare una modifica del tessuto multilaterale rispetto agli equilibri emergenti. La vera sfida sta proprio nel superamento del carattere fortemente competitivo tra gli attori internazionali che già in passato, con la fine della Guerra fredda, era stata la causa principale, alla prova dei fatti, del cosiddetto disallineamento dei poteri così come si erano delineati con il primato occidentale e la gerarchia emergente del nuovo, Brics in primis. È evidente che il riconoscimento di questi ultimi acuisce il timore di declino e declassamento delle potenze industrializzate del xx secolo.

Ma è proprio su questo versante, fortemente dialettico, che si gioca la partita del futuro, anche in Africa, evitando di assecondare la divaricazione tra gli estremi. Quella forbice che ha pesato, negli ultimi tre anni, sulla risposta internazionale prima alla pandemia da covid-19 e poi alla crisi che insanguina l’Europa orientale. D’altronde, è inutile nascondersi dietro un dito: l’attuale posizionamento competitivo tra le grandi potenze ha acutizzato anche in Africa la polarizzazione e le perturbazioni, portando all’inflazione, all’aumento dei tassi d’interesse e al rischio di recessione. Non è un caso se negli ultimi 12 mesi, oltre una cinquantina di Paesi in sofferenza, molti dei quali africani, hanno bussato alla porta del Fondo monetario internazionale (Fmi) per chiedere aiuti. Come ci insegna la storia magistra vitae, in questo genere di contrapposizioni non vi sono vincitori, ma solo perdenti.

Sebbene sia ancora prematuro disegnare i futuri scenari all’interno dei quali si porrà l’Africa, un suo posizionamento all’interno di un possibile ordine mondiale multipolare, minerebbe l’auspicato multilateralismo della fraternità tanto caro a Papa Francesco, unica via percorribile per affermare la pace e il progresso.

Quest’anno, l’Unione Africana (Ua) celebrerà 60 anni dalla fondazione del suo predecessore, l’Organizzazione dell’unità africana (Oua). Durante la conferenza inaugurale del 1963 ad Addis Abeba, il presidente ghanese Kwame Nkrumah dichiarò che «nessuno Stato africano indipendente oggi da solo ha la possibilità di seguire un corso indipendente di sviluppo economico». Parole ancora oggi vere.

di Giulio Albanese