Il gesto della settimana
Nicolas è congolese, ha sei anni ed è arrivato in Italia alcuni mesi fa con i corridoi umanitari, dopo aver trascorso con la sua famiglia più di tre anni nei campi profughi della Grecia, tra cui quello di Moria sull’isola di Lesbo.
Mentre Papa Francesco percorreva i settori dell’Aula Paolo vi e si intratteneva a lungo con i rifugiati che la gremivano per stringere mani, salutare e scambiare qualche parola, Nicolas è saltato giù da una transenna per abbracciarlo. Voleva regalare al Papa il suo foulard blu in ricordo dell’udienza, ma Francesco glielo ha sistemato teneramente intorno al collo.
È una delle tante immagini che resteranno nel cuore delle migliaia di persone — profughi e rifugiati di vari Paesi e le famiglie che li accolgono, provenienti da diverse regioni italiane, ma anche dalla Francia e dal Belgio — che, sabato 18 marzo, hanno partecipato all’udienza di Papa Francesco: una festa gioiosa dell’accoglienza e dell’integrazione.
Il Papa ha incoraggiato ad andare avanti con i corridoi umanitari, la cui realizzazione — ha detto — «è dovuta sia alla creatività generosa della Comunità di Sant’Egidio, della Federazione delle Chiese evangeliche e della Tavola valdese, sia alla rete accogliente della Chiesa italiana, che è stata generosa». «A me piace tanto che i cristiani si uniscano per lavorare su questo, insieme, come fratelli», ha detto il Papa, notando il carattere ecumenico dei corridoi umanitari. Ha poi sottolineato «l’impegno del Governo italiano e dei Governi che vi hanno ricevuto», sottolineando che «i corridoi umanitari sono stati avviati nel 2016 come risposta alla situazione sempre più drammatica nella rotta Mediterranea»: un mare che «si è convertito in un cimitero», ha aggiunto a braccio.
I corridoi umanitari «sono nati dal pianto e dalla preghiera, una piccola luce di fronte al muro dell’impossibilità e dell’idea che non si possa fare niente», ha detto Daniela Pompei, responsabile della Comunità di Sant’Egidio per i servizi ai migranti, introducendo l’incontro.
Di fronte alle tragedie delle morti in mare, come l’ultima a Cutro, che — ha notato Papa Francesco — «non doveva avvenire», c’è chi non è rimasto indifferente, ma ha sognato di forzare l’inerzia e aprire una via legale e sicura, alternativa ai barconi. Occorre fare di questo progetto — non più sperimentale, ma consolidato e di successo — un modello di accoglienza e integrazione per tutta l’Unione europea, perché, come ha sottolineato Papa Francesco, «i corridoi umanitari indicano una strada all’Europa, perché non resti bloccata, spaventata, senza visione del futuro», ma ricordi la sua storia «sviluppata nei secoli attraverso l’integrazione di popolazioni e culture differenti».
Finora i corridoi umanitari sono riusciti a portare in Europa oltre seimila persone da Paesi in guerra, come Siria, Afghanistan, Eritrea, Sud Sudan, Somalia, Iraq, Yemen, Camerun, Congo. Sono numeri di tutto rispetto, se pensiamo che si tratta di un sistema totalmente autofinanziato dalla società civile. Se intervenissero le entità statali e le organizzazioni internazionali si potrebbero salvare molte più persone e contrastare con efficacia il traffico vergognoso di esseri umani.
Di fronte al fenomeno epocale delle migrazioni, occorre un approccio lungimirante, capace di fornire risposte a chi è costretto a lasciare il proprio Paese a causa di condizioni di vita insostenibili. Per questo bisogna anzitutto soccorrere e salvare chi è in pericolo in mare su rotte sempre più lunghe e rischiose, ma anche facilitare gli ingressi regolari sia di chi fugge da guerre e calamità naturali e ha diritto alla protezione umanitaria, sia di chi vorrebbe venire a lavorare nel nostro Paese in settori in cui c’è un urgente bisogno, come nei servizi alla persona, oltre che in tante produzioni industriali e agricole in grave affanno per carenza di manodopera. Per dare un futuro alle nostre società, che invecchiano o si spopolano come tanti paesi dell’entroterra, e per vivere pienamente il monito di Papa Francesco «ci si salva insieme», occorre considerare le migrazioni un’opportunità e non solo un problema da gestire.
Per questo servono politiche coraggiose. Per fare qualche esempio, c’è bisogno di quote più ampie di ingresso regolare per motivi di lavoro, ma anche della reintroduzione della sponsorship, ossia della garanzia per l’inserimento nel mondo del lavoro da parte di un privato cittadino, di un’azienda o di un’associazione, e dell’estensione dei ricongiungimenti familiari, finora possibili solo tra coniugi o per i figli minorenni, ad altri gradi di parentela, perché si è sperimentato che attraverso la famiglia l’integrazione è più rapida ed efficace. «Integrare è parte della salvezza», ha affermato Papa Francesco nel suo discorso.
E quanti di quei rifugiati, che sono stati accolti e adesso sono integrati, contribuiscono al bene della società che li ha accolti? In loro nome ha parlato Anna, giovane mamma originaria di Aleppo, che dopo esser stata travolta dalla guerra in Siria, adesso lavora come badante presso un’anziana e ha anche deciso «di restituire il dono ricevuto», impegnandosi gratuitamente per gli altri.
È anche l’esperienza di Mattia, di Castelfidardo nelle Marche, che ha parlato in rappresentanza delle «famiglie che non hanno avuto timore ad aprire le loro porte e alla fine si sono ritrovate con tanti nuovi parenti, venuti da lontano, oggi non più stranieri».
I corridoi umanitari, nati dalla società civile e dalla collaborazione tra comunità, Chiese e istituzioni, hanno tenuto viva nella coscienza collettiva una sensibilità solidale e accogliente, unendo l’Italia, ma hanno anche liberato tante energie. Bisogna ripartire da qui per dare una risposta più umana a chi è in cerca di un futuro migliore. È anche una risposta economicamente conveniente per chi accoglie, che avrebbe tanto da guadagnare dalla capacità di resilienza e dalla voglia di ricominciare di chi è accolto.
Ma tutto parte dal pianto e dalla preghiera, suscitate dalle tragedie dei naufragi nel Mediterraneo, che hanno mosso il cuore e l’intelligenza di chi ha cercato una risposta sicura perché tante vite umane potessero essere salvate attraverso uno strumento legale quale sono i corridoi umanitari.
di Marco Impagliazzo
Presidente della Comunità di Sant’Egidio