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Il “castello di carte” dell’economia africana

 Il “castello di carte” dell’economia africana  QUO-058
10 marzo 2023

Sia la pandemia che la guerra russo-ucraina hanno fortemente destabilizzato l’economia mondiale e dunque anche quella africana. D’altronde, petrolio, gas ed elettricità sono diventati più costosi un po’ ovunque. Numerosi fattori incidono sui prezzi dell’energia, in primis la speculazione finanziaria di cui già in passato, ripetutamente, abbiamo ampiamente scritto in questa nostra rubrica.

Non è un caso che, come per la cecità dimostrata dalle grandi istituzioni economiche internazionali alla vigilia della grande crisi finanziaria del 2008, oggi si continui a sottovalutare la “finanza creativa”, vale a dire quell’insieme di operazioni di Borsa atte ad attrarre investimenti proponendo alti profitti congiuntamente ad altrettanti rischi finanziari. Motivo per cui le turbolenze sui mercati sono all’ordine del giorno e si acuiscono a dismisura soprattutto in tempi di crisi come quella che stiamo attraversando.

Poiché i costi per le imprese e i cittadini sono in ampia misura connessi ai beni energetici, il prezzo di queste commodity ha un forte peso sull’inflazione complessiva il cui rialzo è riconducibile, almeno per metà, all’incremento dei prezzi di petrolio e gas. Come sappiamo, mantenere l’inflazione bassa è il compito principale delle banche centrali. E per raggiungere questo obiettivo esse utilizzano come strumento principale i tassi di interesse. In particolare, quando l’inflazione è alta aumentano i tassi di riferimento di politica monetaria e quando è troppo bassa fanno il contrario.

Attualmente il principale problema è costituito proprio dal fatto che sia la Federal reserve (Fed), come anche la Banca centrale europea (Bce) hanno deciso di aumentare i tassi di cui sopra così tanto da penalizzare fortemente i Paesi del Sud del mondo, in particolare quelli africani.

Le ragioni per comprendere quanto sta avvenendo possono trovare la loro ricapitolazione nella seguente metafora: immaginiamo di trovarci di fronte ad un castello di carte da gioco. È sufficiente spingere con la mano la prima per provocare il crollo di tutte le carte. Innanzitutto, si è innescata un’enorme crescita del costo del debito che ha costretto molti governi a essere insolventi nel pagamento degli interessi. È sufficiente dare un’occhiata al World Economic Outlook dello scorso gennaio per rendersi conto della drammaticità della situazione. Il Fondo monetario internazionale (Fmi) stima che il 15 per cento dei Paesi a basso reddito sia in difficoltà debitoria, un altro 45 per cento sia ad alto rischio di sofferenza e il 25 per cento delle economie dei mercati emergenti sia anch’esso ad alto rischio. Lungi dal voler essere catastrofisti, è importante tenere presente che l’attuale congiuntura ha fatto sì che gli investitori del debito, diventati sempre più avversi al rischio in questo tempo di crisi, hanno in gran parte deciso di chiudere i loro mercati in terra africana.

Dall’inizio della guerra che insanguina l’Europa orientale, solo Angola, Nigeria e Sud Africa hanno potuto vendere obbligazioni estere, raccogliendo 6 miliardi di dollari, l’importo più basso dal 2016. Emblematico è il caso della Nigeria dove il debito pubblico totale potrebbe salire quest’anno a 77 trilioni di naira (172 miliardi di dollari) rispetto ai 44 trilioni di naira dello scorso settembre, dopo uno scambio prestito-obbligazioni e nuovi prestiti per finanziare il bilancio 2023. Stiamo parlando — è bene sottolinearlo — di un Paese africano dove il tasso d’interesse è aumentato in questi ultimi tempi passando dall’11,5 per cento al 17,5 per cento, con un’inflazione che ha raggiunto il 22 per cento.

Ma attenzione, gli effetti perniciosi della crisi economica in Africa stanno determinando un deprezzamento delle valute locali rispetto al dollaro statunitense. Conseguentemente sono aumentati i prezzi delle commodity, delle importazioni, anche dei beni di sussistenza. A questo punto qualcuno potrebbe ricordare l’innalzamento significativo dei prezzi del greggio e di altre materie prime, il cui impatto sulle economie dei mercati africani esportatori è comunque positivo. Si dimentica però che in larga parte questo aumento è stato vanificato dagli effetti della riduzione della liquidità a livello globale, provocata proprio dalla politica di aumento dei tassi di interesse.

Come se non bastasse, lo scenario geopolitico internazionale si è infuocato il 3 marzo scorso con la decisione, da parte del governo di Washington, di ampliare le sanzioni commerciali contro la Cina, aggiungendo altre 28 aziende alla “lista nera” delle realtà con sede a Pechino. È l’ennesimo segnale della tensione crescente tra le due superpotenze che si contendono la supremazia economica e politica globale. Occorre tenere presente che gli effetti delle sanzioni imposte a Pechino non colpiscono solo la Cina, ma anche quei Paesi collegati alla sua catena di approvvigionamenti. Quelli africani fanno parte di questa filiera. Basti pensare che tra il 2000 e il 2020, i flussi commerciali sino-africani erano aumentati da un totale di 12 miliardi di dollari a 176 miliardi, quasi quattro volte il valore del flusso commerciale tra Africa e Stati Uniti (45 miliardi nel 2020).

Di fronte a questo scenario, viene spontaneo chiedersi cosa sia effettivamente possibile fare per i governi africani. La posta in gioco è alta perché nella sola Africa subsahariana si stima un aumento del tasso di povertà assoluta nel biennio 2023-2024. Nello specifico, la maggior parte dei Paesi oggi ha più del 50 per cento della popolazione sotto la soglia di povertà assoluta. Nella Repubblica Democratica del Congo si sale al 70 per cento, in Angola al 51 per cento, in Mali al 42 per cento, in Madagascar al 77 per cento, in Zambia al 59 per cento e in Sud Sudan all’81 per cento. Considerando il diverso potere d’acquisto di ciascuno Stato, la verità è che i Paesi dove si concentrano ora i poveri assoluti non sono in fase di crescita economica. Il caso del Madagascar è paradigmatico: negli ultimi vent’anni il prodotto interno lordo in questo Paese è cresciuto pochissimo (dai 10 miliardi di dollari del 2000 ai 15 attuali) e il numero di persone in povertà estrema è lievitato consistentemente con l’aumento demografico. Morale: senza crescita economica e politiche di welfare mirate al sostegno dei ceti in assoluto meno abbienti, questi Paesi non potranno mai venir fuori dalla morsa della povertà assoluta.

Un ricorso suggerito da molti analisti potrebbe essere quello di appellarsi ai finanziatori multilaterali come il Fmi, le cui condizioni, secondo molti governi africani, impattano negativamente sulla sovranità dei loro rispettivi Paesi. «Come dar loro torto? Per loro — osserva l’economista Paolo Raimondi — si prevede un lungo periodo di debiti crescenti e pochi investimenti. I capitali, infatti, saranno assorbiti dalle economie avanzate a loro volta colpite da tassi e debiti alti. Per 37 Paesi poveri la situazione sarà molto peggiore». Sempre secondo Raimondi, «il vero problema, soprattutto per noi occidentali, è che si prendono iniziative prettamente geopolitiche legate alla sicurezza e alla forza militare, spesso senza valutarne le conseguenze economiche e sociali in altre parti del mondo». È evidente che siamo di fronte a un circolo vizioso in quanto gli effetti delle politiche monetarie dei Paesi avanzati impattano negativamente su quelli geograficamente lontani, per poi generare un effetto risacca: la mobilità umana è sintomatica di questo malessere. Per non parlare delle rivolte popolari. La rabbia per la crescita dell’esclusione sociale e del costo della vita, la sfiducia nei governi e nelle istituzioni e la politica sempre più polarizzata, insieme all’aumento dell’attivismo e delle preoccupazioni ambientali, sono i principali fattori che alimentano gli scioperi, sommosse e tumulti popolari in Africa. Sono soprattutto i giovani i più penalizzati, in un continente in cui l’età media è di 20 anni. Per questo motivo il consesso delle nazioni non può essere indifferente rispetto all’acuirsi delle diseguaglianze. Per dirla con le parole di Papa Francesco: «Oggi non c’è tempo per l’indifferenza. Non possiamo lavarci le mani (…) Oggi la fraternità è la nuova frontiera dell'umanità».

di Giulio Albanese