Il documentario «Formiche» di Valerio Nicolosi sul dramma degli immigrati

Quei dolorosi viaggi lungo un filo spinato

 Quei dolorosi viaggi lungo un filo spinato  QUO-057
09 marzo 2023

«Abbiamo tutti lo stesso sangue», dice Saidah: una donna afghana bloccata sull’isola di Lesbo, in Grecia. «Il sangue di tutti è dello stesso colore», aggiunge, ribadendo una verità tanto limpida e profonda quanto troppo facilmente indifesa. Grida il suo dolore, stremata, sintetizzando l’uguaglianza di tutti gli esseri umani: il fatto che degli stessi sentimenti e diritti, della stessa necessità di cura e dignità, degli stessi sogni e della stessa speranza siamo fatti. Oltrechè della stessa sofferenza quando tutto questo viene negato.

Mostra la sua ferita, Saidah, mentre parla dei suoi figli che non possono studiare, nel campo dove sono costretti. E già questo particolare rende drammaticamente complicato il loro futuro. La sua storia diventa quella di un numero gigante di persone, quando le inquadrature del potente documentario di Valerio Nicolosi, Formiche, prodotto da Dazzle Communication e patrocinato da Amnesty International Italia (ora in sala, inzialmente a Roma, al Nuovo Cinema Aquila, dal 13 al 15 marzo prossimi) si allargano per fotografare la vastità di questa grande tragedia umana, di questo presente che riguarda il mondo intero. Prontamente si restringono, però, per ascoltare alcune storie e associarle ognuna a un nome, a una persona, a una vita vera che tenta di aggrapparsi all’Europa, di superare i suoi cancelli rischiando per terra o per mare, in fuga da guerre, persecuzioni e povertà. Attraversando pericoli indicibili e incontrando spesso il dolore.

Sono vite animate dalla forza della disperazione, quelle incontrate da Nicolosi nel suo toccante e doloroso viaggio, ma anche dalla normalità di chi vuole trascorrere in pienezza il proprio tempo sulla Terra. «Partiamo in cerca di salvezza, per non essere uccisi», dice una delle prime voci raccolte da Formiche, il cui movimento spazia dalle acque del Mediterraneo ai campi profughi di Lesbo, in Grecia, passando per Trieste fino ai Paesi balcanici in cui i migranti tentano il game: un gioco solo a parole, il sinonimo provocatorio di un viaggio che di divertente non ha nulla, di pericoloso invece tanto. Di estremamente ingiusto anche, di un faticoso che solo in pochi casi si traduce in miglioramento. Solo alcune delle storie raccolte dal regista, infatti, afferrano la luce: quella di Hortensia, incontrata a bordo di una nave della Ong Open Arms, desiderosa solo «iniziare una nuova vita, di dimenticare tutto quello che è successo, la gente che ho visto morire», spiega. «Adesso vive in Portogallo — si legge nella didascalia che chiude il film — ed è felice».

Anche per Saidah, dopo tanta sofferenza, la strada si è aperta, ma lo stesso non può dirsi per Shahzib, che «dopo aver tentato tante volte di attraversare il confine è ritornato in Grecia e le autorità lo hanno rimpatriato in Pakistan». Non può dirsi nemmeno per Mohammad, «ancora bloccato in Bosnia. Ha provato a oltrepassare la frontiera croata ma è stato respinto». E chissà cosa ne è stato di Mustafa e della sua famiglia curdo-irachena con diversi bambini, incontrati mentre tentavano di attraversare uno dei numerosi confini del film. Di loro «non si hanno notizie», leggiamo all’epilogo di questo documentario fatto di testimonianze struggenti, di una durezza onesta, necessaria a debellare ogni forma di indifferenza.

È un film di fili spinati, Formiche, il cui titolo nasce da una parola del romanzo Furore di John Steinbeck. È un film di tendopoli e di salvagenti ammassati, di mare e di boschi di montagna attraversati a piedi, di rottami di barche e di pasti consumati in luoghi di fortuna, inospitali. Di gente povera che cerca il futuro e di polizia che la respinge con violenza. Di mondi separati e di una sofferenza che si ripete tristemente ogni giorno. E poi di occhi, di volti e di quei corpi già presenti nel frammento di Steinbeck che apre il film, accompagnato dalla voce calda di Bruce Springsteen: «I granai sono pieni, e i figli dei poveri crescono rachitici con i corpi coperti dalla pellagra», recita parte del testo letto dal cantautore americano che nel 1995 omaggiò il protagonista di Furore intitolando un album col suo nome: The Ghost of Tom Joad.

Di corpi feriti, in Formiche, parla anche una delle persone che a Trieste accolgono i migranti della rotta balcanica medicando le piaghe presenti sulle loro gambe. Sono i corpi di quelli che «non muoiono nei fiumi», spiega la donna, di quelli che «non muoiono di confini», prosegue. E «se arrivano lo fanno in condizioni terribili». Aggiunge che «non si può parlare di diritti se non si passa attraverso questi corpi», e se le sue parole aggiungono altro dolore a quello già abbondante in Formiche, stavolta viene lenito da altre di speranza, incarnate nelle immagini delle sue mani posate con delicatezza e amore sui più fragili. «Come si fa a lasciare questa umanità così abbandonata? Si chiede la donna adoperando la parola «cura» per rispondersi.

Quella «pratica della cura che significa relazione — prosegue — che significa capire quali diritti a loro venivano negati». Quella cura che fa riemergere la parola umanità schiacciata, dispersa nelle testimonianze del documentario, ritrovata nelle azioni di soccorso e di unità già sulla nave di Open Arms, e poi nei valori della gratuità, dell’umiltà, dell’accoglienza e dell’attenzione autentica che accompagnano il gesto di curare i piedi del prossimo nella difficoltà più estrema.

Sono immagini che rigenerano, che ridonano il respiro e restituiscono forza.

di Edoardo Zaccagnini