In occasione della Giornata internazionale della donna il nostro mensile «Donna Chiesa Mondo» ha pubblicato, nel numero di marzo, dieci “lettere speciali” indirizzate da dieci scrittrici. Ne riportiamo un articolo qui di seguito.
Cari uomini, so bene che è la Festa della Donna. I poveri alberi della mimosa sono massacrati e i rametti regalati alle donne con le perline di velluto di un giallo luminoso si spengono presto, diventano marroncini, muoiono come le donne in parti considerevoli del mondo, ammazzate, torturate, imprigionate, ingabbiate nel nome della religione, dell’amore e di una cultura che nega loro la libertà.
Noi donne occidentali, di culture diverse, di fedi diverse, non possiamo che ammirare queste leonesse che cercano di liberarsi dalla Sharia, di rompere la gabbia in cui sono nate e tenute da uomini deboli che hanno paura delle donne libere, perché sanno della loro forza, del valore, della fantasia, dell’immaginazione, dell’autodeterminazione, del coraggio.
È la debolezza degli uomini che scatena la violenza, lo stupro, l’omicidio di chi vi lascia. Non l’amore.
Qualsiasi dolore vi abbatte e vi sentite perduti senza la donna—mamma—sorella che vi bacia la feritina, la bua, non sopportate la sofferenza, non sopportate di essere abbandonati, perché vi sentite orfani e incapaci di autogestirvi, di sopportare la solitudine, qualsiasi perdita, compresa quella del lavoro, della posizione sociale, l’ambizione frustrata, qualsiasi sconfitta vi avvilisce, come se foste rimasti un po’ bambini. Non è forse il momento di crescere e sopportare le avversità della vita? Vi manca la mamma eternamente? Anche gli uomini illuminati, importanti, difficilmente inghiottono che il successo della propria donna li superi. In fondo volete sempre avere le redini in mano. Le donne intelligenti, di cui gli uomini in generale hanno un po’ paura, sono contente quando il compagno raggiunge ciò che desidera, ma purtroppo, in fondo, non avviene il contrario. Sopportate male le donne colte, coscienti delle loro possibilità, come non avessero diritto a realizzarsi.
La cultura secolare, la nostra, che vi ha privilegiato da sempre, vi ha danneggiato ed è stata ed è un boomerang. Con questo non voglio dire che le donne in carriera siano migliori degli uomini, anzi, a volte sono peggiori, per dimostrare che possono essergli anche superiori.
Io direi che qualsiasi violenza verso le donne non è altro che la fragilità dell’uomo. Anche alzare una mano è sconfitta.
Nei Paesi dove sono velate, le donne finalmente hanno aperto gli occhi e, per fortuna, non mancano alcuni ragazzi che lottano con loro e pagano con la vita come loro stesse. Speriamo con tutto il cuore che il risveglio appena iniziato continui, non si fermi, non costi troppo sangue. Prima o poi cederanno i dittatori della fede ferrea e punitiva. Non possiamo che sperare. Le catene che imprigionano la libertà, la bellezza, non possono esistere nel nome di nessuna fede o diktat scritto, deciso, imposto dagli uomini solo a proprio favore.
Le donne stanno scrivendo con il sangue una nuova pagina della Storia, sostenute dal nostro dolore, dalla solidarietà e dalla nostra vicinanza, anche se sappiamo che purtroppo sono ben poco e che noi siamo ridotte all’impotenza.
I nostri uomini, dopo mezzo secolo di lezione e lotta femminile, cambiano i pannolini ai figli e passeggiano portandoli sulle spalle, hanno ceduto spazio e potere alle numerose donne di valore. La donna si è emancipata con il lavoro, è uscita di casa, non è più l’angelo del focolare. E anche se questo nuovo rapporto non è il sogno di tutti gli uomini, ormai è realtà. Non per questo, però, si può lasciare un uomo con animo leggero. Il femminicidio abbonda per la debolezza degli uomini, perché non si cammina di pari passo, perché non si cresce insieme, con rispetto, amore, accettazione, coscienza reciproci. L’uomo è sempre indietro di qualche passo e se potesse fermare la donna la fermerebbe. La strada è ancora lunga.
Solo io, sopravvissuta alla Shoah, posso raccontare l’estrema debolezza degli uomini, che hanno pagato il prezzo più alto alla loro cultura nei campi di concentramento, dove sono morti in numero almeno doppio rispetto alle donne; soprattutto gli intellettuali, gli ortodossi, gli ex benestanti erano incapaci di autocurarsi: ammazzare un pidocchio, nascondere i geloni ai piedi, una ferita o un foruncolo alla selezione, persino di lavarsi quando gli era possibile, di stare dritti all’appello, di proteggersi con qualsiasi cosa dal freddo, di sopportare il dolore, la fame e l’abbandono a se stessi, le sofferenze fisiche e morali, le offese. Erano incapaci di sognare, di fantasticare, di pensare che un giorno, forse, sarebbero stati liberi. Al contrario le donne ad Auschwitz, durante la selezione, per ingannare gli occhi assassini del famigerato dottor Mengele si procuravano, per un’ombra di pane, un pezzettino di carta rossa per tingersi le gote, mischiavano l’acqua con un po’ di polvere da usare come fondotinta per coprire il pallore dei visi smunti, nascondere le macchie, proteggevano i piedi nudi con erba negli zoccoli, si curavano miracolosamente con niente.
Oh che pena, che strazio doloroso a trovare questi uomini, per caso, a Dachau, vicino al nostro campo tutti stesi per terra, quasi immobili, incapaci, per l’estrema debolezza, di afferrare una patata che avevo rubato e gettato oltre il filo spinato con la corrente che ci divideva. E vedevo un braccio che si allungava senza riuscire a raggiungere la patata.
E così a Bergen Belsen, dopo la marcia della morte, ci siamo ritrovate in un campo di uomini. Anche lì, tutti per terra, nudi, morti o in agonia. Con la promessa della doppia zuppa, ci dissero di ripulire il campo come si fosse trattato di spazzatura, e di trascinarli nella tenda della morte, dove c’era una piramide di cadaveri.
Le donne che mettono al mondo la vita la difendevano come se dovessero ripopolare il mondo, dopo un milione di bambini bruciati, dopo quell’inferno in terra nell’Europa “civile”.
Festeggiamo pure questo otto marzo camminando, donne e uomini, la mano nella mano, tendendoli forte, guidandoli verso la pace con se stessi e con noi donne, delle quali non possono fare a meno né loro, né il mondo.
di Edith Bruck