L’impegno di medici e volontari nel crotonese

Al lavoro senza sosta
per aiutare i familiari
e i superstiti

 Al lavoro senza sosta per aiutare  i familiari e i superstiti  QUO-055
07 marzo 2023

Assan Maliki che accarezza la foto stampata al computer dei tre nipotini, uno recuperato in mare, gli altri due dispersi, è una delle tante scene drammatiche che, da una settimana, si vedono a Crotone. L’uomo, di Kabul, barba bianca e occhi socchiusi per il sonno e il sole, è lo zio del bimbo di 2 anni e mezzo ritrovato sabato sulla riva di Steccato di Cutro. È arrivato due giorni fa dalla Germania dopo aver appreso «dalla televisione» della tragedia del naufragio. Parla solo in arabo e a un conterraneo fa ripetere in inglese che ha «il cuore spezzato».

Assan è tra i familiari delle vittime giunti a ciclo continuo in questi giorni da Austria e Australia, Olanda e Svezia o Usa. Sono venuti a identificare i parenti e compilare i moduli per il rimpatrio delle salme. Su un tavolino, a poca distanza dalle bare, viene chiesto a papà che hanno perso moglie e figli, a figli che hanno perso i genitori, a fratelli che hanno perso sorelle e nipoti, dove desiderano che quei corpi vengano portati. La procedura è emotivamente usurante, come pure l’attesa per le sorti dei dispersi.

Non sono pochi i momenti di tensione registrati in questi giorni al palasport e c’è chi dice: «Non ce la faccio più». Come Abdul, afghano, che ha perso sorella, cognato, due nipoti: «Mancano ancora tre familiari», spiega con debole italiano, reminiscenza degli anni a Tivoli prima di trasferirsi all’estero. «Ci hanno detto che ci sono corpi in acqua, sotto la parte della barca col motore ma che non sono riusciti ad andare…».

Il maltempo e il forte vento hanno rallentato infatti le ricerche di sommozzatori che proseguono a oltranza le attività di perlustrazione. «Sì, va bene, grazie all’Italia, ma non è giusto… sono passati tanti giorni», lamenta Abdul. A fianco c’è Nebi che mostra sullo smartphone la foto della zia, 38 anni, afghana anche lei. E anche lei annegata. Marito e figlia, invece, dispersi. Perché sono partiti? «Just to live. Solo per vivere», risponde secco il ragazzo.

Ogni parola è mossa da stanchezza e disperazione. A questa gente un pool di avvocati offrirà gratuitamente assistenza legale. Intanto a dare sostegno, soprattutto psicologico, c’è l’Associazione Sabir, in prima linea per l’ospitalità e le nuove emergenze. Anzitutto, spiega Ramzi Libiki, volontario tunisino, il rimpatrio delle salme: «Tante famiglie non sanno come fare». Poi la situazione dei sopravvissuti: «Cerchiamo di velocizzare il ricongiungimento familiare. Mamme, sorelle, bimbi: si pone il problema di lasciarli da soli in Italia». È delle scorse ore la notizia che la prossima settimana dovrebbe svolgersi l’incidente probatorio chiesto dalla Procura di Crotone per cristallizzare le testimonianze degli stessi superstiti. Al momento risiedono nel Cara di Isola Capo Rizzuto, dove chi lo ha visitato parla di «un confinamento in una sorta di regime hotspot», con migranti sistemati «in due capannoni, tra bagni in comune, scarsa igiene, nessun riscaldamento».

Otto sopravvissuti sono ancora ricoverati all’Ospedale San Giovanni di Dio, tra cui tre bambini ristabilitisi dopo la prima fase d’emergenza. «Un impatto surreale», ricorda la dottoressa Catia Pacenza del Reparto Pediatria, di turno la mattina del 26 febbraio. «Le Oss e le infermiere andavano disperate da una barella all’altra tra bambini sporchi di sabbia, feci, vomito, tremanti per l’ipotermia ma anche per la paura. Non avevano un nome, una data di nascita, erano Paziente 1, Paziente 2». In un’«altalena di dolore e rigore», in questi giorni si è fatto tutto il possibile per salvarli: «Grazie a una robusta catena di solidarietà e grazie soprattutto a Dio siamo riusciti a rivedere i loro volti e i loro occhi».

dall’inviato
Salvatore Cernuzio