Da Cutro la testimonianza del pescatore Vincenzo

«Penso ai bambini
e non dormo più»

 «Penso ai bambini e non dormo più»  QUO-053
04 marzo 2023

«Là, là, dove c’è quella cosa nera». Vincenzo indica un punto a destra della spiaggia di Steccato di Cutro: alle 6.30 di questa mattina è stato ritrovato un bambino di 2 anni e mezzo. Con lui sono 69 i corpi dei migranti riemersi dalle acque dello Ionio. «Sono tutti sfigurati, si fa ancora più fatica a recuperarli. Sono in condizioni che è meglio non dire».

Il vento e la pioggia fine ma battente che hanno intorpidito l’acqua stanno ostacolando il lavoro di sommozzatori e Protezione civile. Vincenzo Luciano, 50 anni, pescatore, era presente oggi al nuovo ritrovamento. C’era anche all’alba del 26 febbraio, il momento più drammatico quando le onde hanno iniziato a restituire cadaveri. «Stavo dormendo e mi è arrivata la telefonata di un amico: “Vincé, corri, sento delle urla, non so cosa sta succedendo!”. Abito vicino, mi sono vestito e dopo cinque minuti ero qui. Ho visto immagini paurose ma non ho avuto tempo di pensare perché mi sono buttato in acqua a prendere i corpi. Pensavo che erano vivi ma erano tutti morti. C’era il mare forte, facevo una fatica immane a prenderli perché li portavo in spiaggia e la risacca se li riprendeva di nuovo indietro…».

Il pescatore si stropiccia gli occhi azzurri arrossati dal poco sonno e dalla salsedine: «Più alzavo la testa e più sulla spiaggia vedevo una distesa di cadaveri, anche bambini», racconta. L’immagine di un bambino lo ha scioccato così tanto da avergli levato il sonno e l’appetito da giorni: «Era piccolo, l’ho preso in acqua in braccio, aveva gli occhi aperti, sembrava che mi guardasse. Ho gridato: “Questo è vivo, questo lo salviamo!”. Invece quando l’ho messo a riva, ho visto che non respirava più e gli ho chiuso gli occhi. È una settimana che non riesco a dimenticare quella scena».

Da quel giorno il pescatore vive praticamente in spiaggia, dove lo scenario, dopo una settimana dal naufragio, è ancora spettrale. Quasi di guerra. Ci sono scarpe — spaiate, distrutte, impregnate di sabbia, oppure sistemate sotto una croce accroccata con due canne di legno e un filo d’acciaio — lungo tutta la costa. Poi calzini, pacchi di crackers, un giubbotto salvagente, un flacone di medicine, una lattina di Red Bull, un mazzo di mimose sistemato sotto un pezzo della fiancata del barcone, forse a voler celebrare l’8 marzo che le donne annegate non potranno festeggiare. Tutto è rimasto immobile da quell’ora di dolore.

Vincenzo si ripara dal freddo dentro la sua Nissan bianca. «Ricerche, ricerche, ricerche: questo si fa dalla mattina alla sera, anche di notte», spiega. «Mi sono attrezzato con un faro, è un dovere cercare». È un dovere verso gente come la donna afghana andata ieri in spiaggia a supplicarlo di ritrovare il figlio. «Mi ha preso dal braccio e mi ha detto con la traduzione del telefono: “Per favore, trovi mio figlio…”. Ne aveva altri due: uno è morto, l’altro disperso. Le ho promesso che ce la metto tutta. L’ho promesso anche a me stesso. Come si fa a lasciarli in mare? Non riesco a dormirci la notte».

dall’inviato
Salvatore Cernuzio