Hic sunt leones
Crescita demografica e globalizzazione economica trasformano il volto del continente

Mutamenti e continuità
in Africa

 Mutamenti  e continuità in Africa   QUO-052
03 marzo 2023

Le società africane stanno subendo da diversi anni una costante metamorfosi dovuta ad una serie di fattori sui quali vale la pena riflettere. Non pochi studiosi hanno affrontato la questione evidenziano uno scenario molto complesso. Da una parte le comunità autoctone, sia nelle zone rurali come anche nelle città hanno subito gli effetti dei rapidi cambiamenti, anche traumatici, avvenuti nel periodo compreso tra la fine del secolo scorso e l’avvento della cosiddetta post-modernità. Basti pensare che nel 2000, l’intera Africa subsahariana contava meno linee telefoniche fisse della sola Manhattan. Già nel 2006, il 45 per cento delle comunità rurali in Africa era coperto dal segnale Gsm. Oggi invece, grazie alla telefonia mobile, oltre un miliardo di persone ha accesso ai network locali. Questo sviluppo tecnologico ha fatto sì che attraverso la rete Internet in molti Paesi si possa usufruire di servizi digitali, pubblici e privati.

Al contempo, fenomeni come l’urbanesimo stanno avendo un notevole impatto sul modus vivendi delle popolazioni. Basti pensare che attualmente la componente insediata nelle città africane è di circa 500 milioni e le proiezioni indicano che nel 2030 supererà il miliardo di persone, oltrepassando la quota rurale. Se a tutto questo aggiungiamo gli effetti del sistema mercantilista internazionale che, con declinazioni diverse, sottrae da secoli ai Paesi africani la maggior parte del loro surplus, è evidente che si acuiscano a dismisura la povertà e la conseguente esclusione sociale dei ceti meno abbienti. Sebbene in questi anni vi sia stata una relativa crescita, in termini percentuali, del prodotto interno lordo (pil) a livello continentale (anche se poi interrotta dalla pandemia e comunque ora frenata dalla crisi russo-ucraina), le diseguaglianze sono cresciute.

Emblematico è il caso della Nigeria, colosso economico africano, ricco di idrocarburi, con un pil stimato attorno ai 500 miliardi di dollari e una popolazione di oltre 200 milioni di abitanti. Ebbene in questo Paese, secondo l’Ufficio di statistica nazionale, vi sono 133 milioni di persone, pari al 63 per cento della popolazione, che soffrono la povertà e di queste 91 milioni vivono in condizioni di povertà estrema, la maggior parte dei quali sono giovani. La Nigeria — è bene sottolinearlo — ha una popolazione la cui età media è di 18,5 anni e un tasso di disoccupazione stimato attorno al 33,3 per cento. Motivo per cui la delinquenza è sempre più violenta e difficile da contenere.

Parlando sempre della dialettica tra passato e futuro, il persistere di pratiche ancestrali come le mutilazioni genitali femminili in alcuni gruppi etnici, che recano danni fisici e psicologici di breve e lungo termine alle donne, costituisce un serio problema e stride con le istanze di sviluppo poste dai governi locali. In alcuni Paesi, come la Somalia, l’Egitto e il Sudan, la percentuale di donne, ragazze e bambine mutilate supera l’80 per cento. In Kenya e Nigeria siamo tra il 26 per cento e il 50 per cento, mentre in Camerun e in Niger i numeri scendono fino al 10 per cento. A parte le convinzioni religiose, le ragioni dietro la circoncisione femminile sembrerebbero risiedere spesso nell’assetto patriarcale di molte delle società e delle comunità: una forma di controllo del corpo e delle funzioni riproduttive delle donne, non padrone del proprio corpo ma alla mercé del potere e della volontà dei parenti maschi.

Sebbene l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) consideri la circoncisione femminile «una violazione dei diritti umani delle donne», queste pratiche riscuotono un forte sostegno nelle comunità in cui vengono attuate. Le stesse donne che le hanno già subite durante l’infanzia desiderano che le proprie figlie vi siano sottoposte, in quanto il rituale conferisce uno status sociale, rispetto, riconoscimento pubblico e integrazione con la società di appartenenza.

Già nel 1985 Catherine Coquery-Vidrovitch, storica e africanista francese di fama internazionale, nel suo saggio Afrique noire rilevava: «Dal punto di vista economico, sociale, politico e ideologico, i sistemi, i meccanismi e le prospettive che guidano gli Stati africani sembrano contraddittori, poiché al loro interno coesistono e interagiscono elementi ereditati da un passato talvolta lontano, spesso ormai incongrui, ed elementi che appartengono a un futuro più desiderato che progettato». Dopo oltre trent’anni dalla pubblicazione di quest’opera dell’editrice parigina Payot, è il caso di dire che le difficoltà del tempo presente in Africa costituiscono una dilatazione spazio-temporale di quanto scrisse Coquery-Vidrovitch.

Peraltro, già allora, nel 1985, questa studiosa aveva prefigurato il rischio della «periferizzazione» dell’Africa da parte di quel fenomeno macroeconomico conosciuto come globalizzazione dei mercati. Da questo punto di vista, le strategie messe in atto oggi da potentati stranieri d’ogni genere all’insegna del neocolonialismo tendono a minare i tentativi africani di riscatto, contribuendo a procrastinare nel tempo la debolezza sistemica dell’Africa. Se questo continente continua ad essere costantemente esposto alle rivalità internazionali (particolarmente in questa stagione segnata dalla crisi del multilateralismo) è perché esso viene percepito dai mercati come terra di conquista. Si tratta di una vulnerabilità che accresce costantemente l’insofferenza delle masse africane. Un’insofferenza rispetto alla quale la società civile — intesa come espressione qualificata della galassia di associazioni, organizzazioni non governative, movimenti, gruppi e Chiese cristiane — tende a posizionarsi promuovendo forme native di gestione del potere, del welfare e dell’economia basate su rapporti di vicinato e di prossimità. Il recente viaggio africano di Papa Francesco a Kinshasa (Repubblica Democratica del Congo) e Giuba (Sud Sudan) ha messo in evidenza, soprattutto nelle aree di persistente belligeranza dove lo Stato di diritto viene sistematicamente misconosciuto, la formidabile crescita del settore cosiddetto informale, con le sue istituzioni parallele, le sue innumerevoli ramificazioni, in difesa della pace, della giustizia e della partecipazione popolare.

Questi progressivi cambiamenti vengono sostenuti dalla crescita demografica africana che rappresenta una variabile rispetto alla quale i Paesi industrializzati fanno effettivamente fatica a misurarsi. In effetti, nel giro di meno trent’anni tutti gli elementi che caratterizzano attualmente il continente africano avranno subito un’alterazione difficilmente pronosticabile con i nostri odierni strumenti di analisi. In altre parole, il pessimismo e allarmismo (rispetto, ad esempio, al tema della mobilità umana) che suscitano le previsioni a breve e medio termine non possono essere validamente estese al lungo periodo. Sta di fatto che la popolazione africana sta aumentando in maniera esponenziale. I dati che elaborati da The United Nations Department of Economic and Social Affairs (Desa) sono a dir poco eloquenti. In base ad essi si apprende che nel 1950 la popolazione africana era di 221 milioni di persone. Adesso, essendo arrivata a 1.400 milioni, vuol dire che essa, nel giro di soli 73 anni, è aumentata di oltre il 630 per cento. Ma la crescita non finisce qui. Infatti, sempre in base alle previsioni dell’Onu, la popolazione africana sarà pari a 2.500 milioni di persone nel 2050 (un quarto della popolazione mondiale). D’altronde, se si considera che oggi l’età media in Africa è di vent’anni, non c’è molto da stupirsi di fronte a queste proiezioni. Nel frattempo, sempre nel 2050, l’Europa rappresenterà il 5 per cento dell’intera popolazione planetaria. Questo significa che in meno di trent’anni, la demografia africana giocherà un ruolo rilevante. Questa crescita assumerà proporzioni tali da costringere le popolazioni urbane a modificare il loro modo di vivere o di sopravvivere? O forse creerà condizioni più favorevoli, attraverso ad esempio una sana cooperazione tra Nord e Sud del mondo? Anche perché la vecchia Europa, se vorrà continuare ad essere competitiva sul versante dell’economia reale, avrà necessariamente bisogno di risorse umane africane.

Ecco perché sarebbe auspicabile la definizione di un Patto migratorio euro-africano che possa ridare dignità alla mobilità umana, scongiurando ogni forma di tratta delle persone, governando i flussi nel rispetto del valore della vita. Per dirla con le parole di Papa Francesco: «Non possiamo più pensare solo a preservare lo spazio dei nostri interessi personali o nazionali, ma dobbiamo pensarci alla luce del bene comune, con un senso comunitario, ovvero come un “noi” aperto alla fraternità universale».

di Giulio Albanese