«Conversione» e «pentimento» sono due temi certamente non estranei «a quel diritto penale che gli operatori della giustizia e quanti sono nel suo dramma a vario titolo coinvolti, sono chiamati ad applicare e a vivere». Lo ha affermato il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, durante la celebrazione eucaristica presieduta sabato mattina, 25 febbraio, nella Cappella Paolina del Palazzo Apostolico, in occasione dell’inaugurazione del 94° anno giudiziario del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano.
Il porporato ha ricordato le parole del giurista Francesco Carnelutti, il quale affermava che il pentimento «altro non è che una condanna di se stesso», perciò chi si pente è un giudice di se stesso, il quale «ritornando al suo atto, si giudica, si vergogna e si punisce». In tal senso, ha sottolineato il segretario di Stato, questo invito al pentimento e alla conversione si rivela «coerente e può in qualche modo dal di dentro animare quella moderna concezione della pena che intende valorizzarne la funzione non già meramente retributiva e vendicativa», bensì, e soprattutto, «quella di rieducazione, di recupero e di reinserimento nel corpo sociale e quindi di riconciliazione».
In fondo, a tale spinta al pentimento, alla conversione, alla riconciliazione, «suggerita dalla pagina evangelica odierna, deve presiedere e sottostare un autentico spirito di umiltà comune a tutte le parti» che in qualunque modo entrano «in quel che è stato chiamato il “mistero del processo”». Cioè, «umiltà reciproca», che si esprime, innanzitutto, «nel rispetto della dignità della persona, nell’osservanza attenta e doverosa delle regole, all’interno del quadro costituito dal principio di legalità, curando altresì di evitare le tentazioni e i rischi di una cosiddetta “giustizia etica”, e nel comune desiderio e sforzo di ricerca della verità».
Da qui l’interrogativo: non è infatti il processo, come insegnava san Giovanni xxiii, ministerium veritatis? «Verità processuale, certo — ha aggiunto — ex actis et probatis, umilmente tesa anch’essa a corrispondere alla verità effettiva e reale».
Questo comune sentire «sostanziato da condivisa umanità, che proviene dal senso del limite e dal peccato» potrà far sì che «si realizzi o almeno che onestamente si tenda alla realizzazione, da parte degli operatori della giustizia», di quanto san Paolo vi auspicava per la giustizia ecclesiale e, «segnatamente per il giudice ecclesiastico»: che cioè ci si «lasci penetrare da quel senso umano, al tempo umile e sapiente, che fa del giudice un maestro, una guida, un padre e un amico».
Il cardinale ha concluso dicendo che mentre inizia un nuovo anno giudiziario, risuonano di conforto e di augurio le parole del profeta Isaia, secondo le quali «la pratica della giustizia, la solidarietà coi poveri e bisognosi, non solo assicurano la felicità nell’altra vita, ma la pace interiore, la serenità e la benedizione di Dio anche nella vita presente».
Tra i presenti, il ministro della Giustizia Carlo Nordio e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio della Repubblica italiana, Alfredo Mantovano.